LE NUOVE PAURE DEI NOSTRI RAGAZZI
na foto su Barcellona e dintorni. Eccola. Scorrono le immagini raccapriccianti di persone che volano in aria travolte dalla furia omicida dei giovani assassini dell’Isis.
Un gruppo di loro coetanei toscani commenta inorridito. «Io a quelli un colpo in testa e via», dice Nik, 18 anni. Gli altri annuiscono. Tom, 16 anni, invece li vorrebbe affidare al linciaggio della gente in una sorta di Colosseo moderno delle atrocità. E giù a chi la spara più grossa, come se l’iperbole della vendetta ammortizzasse le atrocità delle stragi in un lavacro di sangue e di dente per dente. Per loro, per questi ragazzi, fratelli dei nostri figli, Barcellona è come il muro di Berlino. Di qua noi, gli occidentali, con i nostri vizi ma anche con il nostro modo di vivere legato all’idea di libertà, diritti e democrazia. Di là loro, «quelli dell’Islam incompatibili con noi». E il renziano «aiutiamoli a casa loro» si trasforma in bocca a questi ragazzi in «stiano a casa loro». Stop. Si dirà che non tutti i giovani la pensano così, ed è vero, ma non possiamo permetterci di ritenerli razzisti perché non lo sono, alcuni di loro, ad esempio, votano a sinistra. Semplicemente hanno paura, i ragazzi del nostro racconto e i tanti che la pensano come loro. Paura per il futuro. Paura per la loro vita. Finché quelli dell’Isis tagliavano le teste l’orrore era orrore, ma non ancora paura perché lontano. La paura è subentrata nei nostri ragazzi nel momento in cui il terrore ha attraversato le loro vite nelle loro strade, nei loro locali. È lì che hanno perso l’innocenza incontrando il Grande Male. Non possono più continuare a immaginare un mondo senza atrocità e dolore: ci sono dentro. Così come è successo alle generazioni di giovani che hanno vissuto la guerra in Vietnam o, prima ancora, quella contro il nazifascismo. Niente potrà rassicurarli, almeno nell’immediato, temiamo. Meno che mai noi che abbiamo commesso tanti errori. A cominciare dall’aver coltivato l’idea di accoglienza come spoliazione della nostra identità per fare posto a quelle altrui quando la forza dell’incontro con il diverso risiede nel dono delle nostre ricchezze culturali, religiose e identitarie. La nostra accoglienza ha finito spesso per sfociare nella soppressione delle regole, delle diversità e delle reciproche identità creative. Così che alla fine si è spesso tramutata in una convivenza da separati nello stesso condominio e quartiere. Le diversità non si sono incontrate e contaminate ma sono rimaste distinte, lontane, gestite più con la burocrazia che con il cuore della vera accoglienza. Poi certo ci sono le grandi responsabilità dei governi e soprattutto dell’Europa, dove ad esempio, come ha spesso denunciato il magistrato Giancarlo Caselli, che di terrorismo se ne intende, non si è creato un sistema di indagine sovranazionale efficiente, come fu quello messo in piede, soprattutto dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, negli anni Settanta e Ottanta, ai tempi delle Br e delle altre sigle del terrore rosso e nero. Nella speranza che qualcosa si muova a livello di istituzioni, dopo Barcellona è giunto il momento che la politica e anche il mondo associativo e la stessa Chiesa si pongano il problema di affrontare in maniera diversa il tema dell’immigrazione e dell’ospitalità. Fuori dai facili luoghi comuni del buonismo senza bontà e dagli slogan beceri di un razzismo senza umanità. Non è facile: tutt’altro. Ma questa è la sfida. La quale, tra l’altro, può consentire ai nostri giovani di comprendere che l’innocenza perduta può diventare una grande occasione di crescita. Il salto nell’età adulta dei doveri e delle responsabilità.