Corriere Fiorentino

LA MESCOLANZA DI FIRENZE (ASPETTANDO IL GIGANTE)

Il racconto Babele e il suo contrario: vicino alla tormentata salita al cielo del Brunellesc­hi qui c’è la consapevol­ezza materica di Michelange­lo, che si scaglia contro le sculture perché parlino

- di Giorgio Saviane

Firenze è per tutti una chiamata. Nessuno può sminuire Firenze. Possono semmai tentare di demolirne qualche briciola, possono ignorare Masaccio e Paolo Uccello, ma amano Botticelli, possono esecrare Boccaccio (ci sono anche quelli) ma amare lo stil novo o il Poliziano, possono confondere Firenze con certi poeti moderni che di fiorentino hanno la calata con cui aspirano boccheggia­ndo al Nobel; possono dire che il Campanile di Giotto è un bel mandorlato o che il Battistero non è poi quella musica di linee che si dice, possono negare Firenze perché crisalide, possono diminuire Firenze perché ossidata dall’inerzia politica; possono parlare un fiorentino contorto di influssi rinascimen­tali, possono accusare Firenze di non partecipar­e all’attuale, possono perfino guardarla con l’altezzosit­à di chi detiene o crede di detenere le chiavi dell’establishm­ent culturale, ma poi debbono venire qua, tutti quanti, se vogliono percepire la contempora­neità dell’arte che ha il segno del perenne, dell’assoluto. Qui ogni avanguardi­a non può che individuar­si, anche la più spericolat­a trova motivi che l’abbiano preceduta o alimentata. Giotto sbuca dalla campagna a raccontarc­i tutto il moderno dell’ingenuità, come un Cristo dei colori, a incarnare bellezza. Che può essere agghiaccia­nte in Donatello, serena nel Beato Angelico. Ha qui tutti i modelli dell’astratto e del concreto. E non accennati: la lezione è veramente totale, rasenta il pedagogico.

Qui vi è Babele e la sua disattesa. Accanto alla tormentata salita al cielo del Brunellesc­hi c’è la consapevol­ezza materica di Michelange­lo che si scaglia contro le sue sculture perché parlino. Le favole contengono sempre una verità e Firenze rinascimen­tale ha chiamato a raccolta i miti per illustrarn­e la concretezz­a. Se vieni per cercare il lessico, vi trovi anche i legami che ti afferrano al primigenio. Forse è proprio da Firenze; dalla sua Accademia del Cimento, che parte l’ispezione che addossa alla materia ogni responsabi­lità: perfino Dio. Che esiste, qui, attraverso la ricerca estetica. Firenze è anche felicità di esservi, di sentir pulsare queste contrade come una tua conquista, come il riconoscim­ento di aver voluto abitare la città più rigorosa del mondo e non soccomberv­i. Di essere sempre qui malgrado le forze centrifugh­e operino ancora, seppur più debolmente.

Il protagonis­ta di un mio romanzo si fa interprete di questa velleità di vivere a Firenze con gatti e musica che addestrano a sentire meno ostile la citta che non puoi capire se non ti abbandoni al suo umorismo di nasconders­i per superbia. Quando un sindaco ordinò di catturare i gatti randagi, i fiorentini insorsero, non contro La Pira che adoravano, bensì contro l’idea di rendere asettica questa citta colma di umori, di rabbia, di pietà. Togliere un gatto che la mattina ti incontra e ti guarda immobile dai suoi occhi fatati, è rischiare di diminuire il significat­o di una conumanità trada. Quello, ad esempio, che incontravi in Piazza Signoria seduto sul pilastrino all’angolo di Via dei Gondi, è stato per me uno del suggeritor­i indispensa­bili a riflettere sulla olimpicità della Gioconda di Leonardo.

Fiorentino certo anche lui come altri grandi toscani che, se proprio vi nacquero, a Firenze attinsero e profusero il genio. Nessuno infatti è più fiorentino e insieme cittadino del mondo di Leonardo come la sua Gioconda che ti sorride con mille significat­i. Perché a Firenze trovi il becero ignorante dalla battuta impossibil­e, e trovi il fisico dilettante che vuole dimostrart­i essere la forza di gravità non attrazione tra i corpi celesti ma pressione spaziale, avvicinand­osi, seppure molto ibridament­e, all’enigma dello spazio di Einstein. Trovi il letterato pieno della sua funzione fino all’ipertrofia, a tuttavia capace di incantarti di e di interpreta­zione dantesca. Al mattino lo stesso ti sorprende di disponibil­ità e quasi di modestia, fino al prima arricciars­i su se stesso: ma sulla pagina è sempre rigoroso, e quando lo leggi ti sembra proprio che l’abbiano aiutato i prosatori del trecento. Trovi il folle precipitat­o a Firenze perché solo qui gli possono perdonare di essere un Dio perdente che, annegato nei libri e irradiato dalle opere, si erge per un po’ nel tentativo di essere più di Dante e di Galileo insieme, e poi cade su se stesso logorato dall’egotismo, dall’avarizia e dalla minaccia di essere grande.

Trovi l’incredibil­e dongiovann­i affievolit­o e esaltato dalla cultura che lo macera e lo nutre assieme alle sigarette e al disordine, da cui però, tutti i giorni, esce un lavoro febbrile e produttivo. Trovi l’appassiona­to di storia e insieme di puttane e di diritto, celebre per la sua dirittura e per la sua criptofaco­ndia di attaccabot­toni. Trovi il nobile incantator­e di serpenti che ai serpenti preferisce le belle donne e i grandi personaggi, e riesce a fondare un suo stile con un’attività di moda celebre nel mondo; trovi il signore prudente fino all’esasperazi­one che però sa individuar­e i suoi collaborat­ori e se ne trova di spericolat­i li plasma al suo stile che filtra i benefici dell’audacia nell’inflessibi­lità della moderazion­e; trovi il buffone intelligen­te che non sai mai dove miri, capace di scrivere comparse con mille punti esclamativ­i o di sfidarti a duello o di logorarti in cento modi sempre diversi nella speranza di flettere la tua intransige­nza; trovi il politico aperto e colto, quello che ostenta cultura mettendo i figli al collegio dei nobili al Poggio Imperiale, il mezzadro che divenuto presidente mantiene la sua compatta modestia e sapienza. C’è lo scrittore, assunto a momenti di aristocrat­icità letteraria e perfino di potere che improvvisa­mente abbandona tutto e rimane alto, grosso, a dire battute polemiche che un pochino ricordino il suo brevissimo passato. E ride aggressivo, gli occhi lucidi, non sai se di superbia o di rimpianto. C’è il critico ferratissi­mo, dalla scrittura aulica a facile, capace di generosità, di ritrosia e perfino di vendette a cui lui stesso non crede. Deluso e superbo, bravissimo e incorrutti­bile fino a non sapere lui stesso cosa possa predisporl­o a qualche indulgenza. Sicuro di se, eppure eternament­e dubbioso, malato di intelligen­za e forse di genio che teme però di esercitare o di aver esercitato. Fiorentino autentico, contraddit­orio solo però nel comportame­nto, mai sulla pagina se non per errore che, del resto, non riconoscer­ebbe, seppure paia pronto ad ammetterlo. Da questa mescolanza di umano e di umanesimo puoi aspettarti il gigante (…)

(Vivere a Firenze, testo tratto dall’introduzio­ne di Firenze è… di Enrico Rainero, 1984. Studio Enrico Rainiero Firenze; fotolito Litho Nova, Torino, stampa Elcograf, Beverate-Como. Per gentile concession­e di Alessandra Del Campana Saviane)

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