LA MESCOLANZA DI FIRENZE (ASPETTANDO IL GIGANTE)
Il racconto Babele e il suo contrario: vicino alla tormentata salita al cielo del Brunelleschi qui c’è la consapevolezza materica di Michelangelo, che si scaglia contro le sculture perché parlino
Firenze è per tutti una chiamata. Nessuno può sminuire Firenze. Possono semmai tentare di demolirne qualche briciola, possono ignorare Masaccio e Paolo Uccello, ma amano Botticelli, possono esecrare Boccaccio (ci sono anche quelli) ma amare lo stil novo o il Poliziano, possono confondere Firenze con certi poeti moderni che di fiorentino hanno la calata con cui aspirano boccheggiando al Nobel; possono dire che il Campanile di Giotto è un bel mandorlato o che il Battistero non è poi quella musica di linee che si dice, possono negare Firenze perché crisalide, possono diminuire Firenze perché ossidata dall’inerzia politica; possono parlare un fiorentino contorto di influssi rinascimentali, possono accusare Firenze di non partecipare all’attuale, possono perfino guardarla con l’altezzosità di chi detiene o crede di detenere le chiavi dell’establishment culturale, ma poi debbono venire qua, tutti quanti, se vogliono percepire la contemporaneità dell’arte che ha il segno del perenne, dell’assoluto. Qui ogni avanguardia non può che individuarsi, anche la più spericolata trova motivi che l’abbiano preceduta o alimentata. Giotto sbuca dalla campagna a raccontarci tutto il moderno dell’ingenuità, come un Cristo dei colori, a incarnare bellezza. Che può essere agghiacciante in Donatello, serena nel Beato Angelico. Ha qui tutti i modelli dell’astratto e del concreto. E non accennati: la lezione è veramente totale, rasenta il pedagogico.
Qui vi è Babele e la sua disattesa. Accanto alla tormentata salita al cielo del Brunelleschi c’è la consapevolezza materica di Michelangelo che si scaglia contro le sue sculture perché parlino. Le favole contengono sempre una verità e Firenze rinascimentale ha chiamato a raccolta i miti per illustrarne la concretezza. Se vieni per cercare il lessico, vi trovi anche i legami che ti afferrano al primigenio. Forse è proprio da Firenze; dalla sua Accademia del Cimento, che parte l’ispezione che addossa alla materia ogni responsabilità: perfino Dio. Che esiste, qui, attraverso la ricerca estetica. Firenze è anche felicità di esservi, di sentir pulsare queste contrade come una tua conquista, come il riconoscimento di aver voluto abitare la città più rigorosa del mondo e non soccombervi. Di essere sempre qui malgrado le forze centrifughe operino ancora, seppur più debolmente.
Il protagonista di un mio romanzo si fa interprete di questa velleità di vivere a Firenze con gatti e musica che addestrano a sentire meno ostile la citta che non puoi capire se non ti abbandoni al suo umorismo di nascondersi per superbia. Quando un sindaco ordinò di catturare i gatti randagi, i fiorentini insorsero, non contro La Pira che adoravano, bensì contro l’idea di rendere asettica questa citta colma di umori, di rabbia, di pietà. Togliere un gatto che la mattina ti incontra e ti guarda immobile dai suoi occhi fatati, è rischiare di diminuire il significato di una conumanità trada. Quello, ad esempio, che incontravi in Piazza Signoria seduto sul pilastrino all’angolo di Via dei Gondi, è stato per me uno del suggeritori indispensabili a riflettere sulla olimpicità della Gioconda di Leonardo.
Fiorentino certo anche lui come altri grandi toscani che, se proprio vi nacquero, a Firenze attinsero e profusero il genio. Nessuno infatti è più fiorentino e insieme cittadino del mondo di Leonardo come la sua Gioconda che ti sorride con mille significati. Perché a Firenze trovi il becero ignorante dalla battuta impossibile, e trovi il fisico dilettante che vuole dimostrarti essere la forza di gravità non attrazione tra i corpi celesti ma pressione spaziale, avvicinandosi, seppure molto ibridamente, all’enigma dello spazio di Einstein. Trovi il letterato pieno della sua funzione fino all’ipertrofia, a tuttavia capace di incantarti di e di interpretazione dantesca. Al mattino lo stesso ti sorprende di disponibilità e quasi di modestia, fino al prima arricciarsi su se stesso: ma sulla pagina è sempre rigoroso, e quando lo leggi ti sembra proprio che l’abbiano aiutato i prosatori del trecento. Trovi il folle precipitato a Firenze perché solo qui gli possono perdonare di essere un Dio perdente che, annegato nei libri e irradiato dalle opere, si erge per un po’ nel tentativo di essere più di Dante e di Galileo insieme, e poi cade su se stesso logorato dall’egotismo, dall’avarizia e dalla minaccia di essere grande.
Trovi l’incredibile dongiovanni affievolito e esaltato dalla cultura che lo macera e lo nutre assieme alle sigarette e al disordine, da cui però, tutti i giorni, esce un lavoro febbrile e produttivo. Trovi l’appassionato di storia e insieme di puttane e di diritto, celebre per la sua dirittura e per la sua criptofacondia di attaccabottoni. Trovi il nobile incantatore di serpenti che ai serpenti preferisce le belle donne e i grandi personaggi, e riesce a fondare un suo stile con un’attività di moda celebre nel mondo; trovi il signore prudente fino all’esasperazione che però sa individuare i suoi collaboratori e se ne trova di spericolati li plasma al suo stile che filtra i benefici dell’audacia nell’inflessibilità della moderazione; trovi il buffone intelligente che non sai mai dove miri, capace di scrivere comparse con mille punti esclamativi o di sfidarti a duello o di logorarti in cento modi sempre diversi nella speranza di flettere la tua intransigenza; trovi il politico aperto e colto, quello che ostenta cultura mettendo i figli al collegio dei nobili al Poggio Imperiale, il mezzadro che divenuto presidente mantiene la sua compatta modestia e sapienza. C’è lo scrittore, assunto a momenti di aristocraticità letteraria e perfino di potere che improvvisamente abbandona tutto e rimane alto, grosso, a dire battute polemiche che un pochino ricordino il suo brevissimo passato. E ride aggressivo, gli occhi lucidi, non sai se di superbia o di rimpianto. C’è il critico ferratissimo, dalla scrittura aulica a facile, capace di generosità, di ritrosia e perfino di vendette a cui lui stesso non crede. Deluso e superbo, bravissimo e incorruttibile fino a non sapere lui stesso cosa possa predisporlo a qualche indulgenza. Sicuro di se, eppure eternamente dubbioso, malato di intelligenza e forse di genio che teme però di esercitare o di aver esercitato. Fiorentino autentico, contradditorio solo però nel comportamento, mai sulla pagina se non per errore che, del resto, non riconoscerebbe, seppure paia pronto ad ammetterlo. Da questa mescolanza di umano e di umanesimo puoi aspettarti il gigante (…)
(Vivere a Firenze, testo tratto dall’introduzione di Firenze è… di Enrico Rainero, 1984. Studio Enrico Rainiero Firenze; fotolito Litho Nova, Torino, stampa Elcograf, Beverate-Como. Per gentile concessione di Alessandra Del Campana Saviane)