«Dov’è la famiglia Nencioni?» E il boato divenne tragedia
I primi soccorsi, la confusione, il corteo e le indagini dei magistrati
Il boato, lo spostamento d’aria, le fiamme che si levavano nel cielo della calda notte: erano le 1.04 del 27 maggio 1993. Era — Firenze e l’Italia ancora non lo sapevano — la Strage dei Georgofili, con le sue cinque vittime, le devastazioni degli Uffizi, Cosa Nostra che cercava di porre sotto scacco lo Stato, lo choc su tutti i giornali e le televisioni del mondo.
Nell’esplosione del Fiat Fiorino imbottito di tritolo la Torre del Pulci andò distrutta e sotto le macerie morì tutta la famiglia Nencioni — Fabrizio Nencioni, vigile urbano; Angelamaria Fiume in Nencioni, custode dell’Accademia dei Georgofili; Nadia, nove anni; Caterina nata cinquanta giorni prima — mentre Dario Capolicchio, 22 anni, studente, morì tra le fiamme nel palazzo di via Lambertesca dove era in affitto. La città pagò un prezzo altissimo anche al suo patrimonio artistico, con danni agli Uffizi, Palazzo Vecchio, la chiesa di Santo Stefano e centinaia di opere e libri, ma anche questo non fu chiaro subito. Dopo la distruzione in via Lambertesca accorsero vigili del fuoco e forze dell’ordine ma solo con l’arrivo di Franco Scaramuzzi, presidente dell’Accademia dei Georgofili, che aveva sede nella Torre del Pulci, si iniziò a delineare la portata della tragedia. «Che notizie ci sono della famiglia Nencioni? Abitano nella torre...» chiese Scaramuzzi davanti agli occhi stupiti dei vigili e degli agenti che non sapevano nulla e che iniziarono subito a scavare, trovando via via i corpi, mentre si continuava a parlare di una fuga di gas. La città intanto si era svegliata con la notizia, era scossa dal dolore e dall’incredulità, temeva anche per gli Uffizi danneggiati proprio all’inizio del Corridoio Vasariano, per Palazzo Vecchio, scosso dall’esplosione, per quadri e statue parte del suo patrimonio artistico. A fine mattina di quello stesso 27 maggio fu chiaro che era stata una bomba la causa delle devastazioni e delle morti, dei 38 feriti, mentre dentro gli Uffizi, tra calcinacci, schegge di vetro e fumo si lavorava per salvare il salvabile e tanti cittadini si recavano in una mesta processione in piazza della Signoria per cercare di vedere, di capire. Il giorno dopo i sindacati dichiararono quattro ore di sciopero nazionale e a Firenze si tenne la fiaccolata silenziosa con 150.000 cittadini che attraversarono commossi ma combattivi il centro in segno di lutto e di protesta contro quella che si pensava già potesse essere violenza mafiosa. Poi furono setti-
mane di lavoro febbrile per permettere l’apertura a tempo di record degli Uffizi, per intervenire sulle opere ferite e dare nuova vita alla Torre del Pulci e ai Georgofili, di indagini serrate.
Magistrato di turno quel giorno era Gabriele Chelazzi, presto affiancato da Giuseppe Nicolosi per decisione dell’allora procuratore capo di Firenze, Pier Luigi Vigna. «Il fatto che Chelazzi fosse di turno fu la fortuna dell’indagine — spiega Nicolosi, oggi procuratore capo di Prato — e vista la complessità della vicenda Vigna decise di affiancarmi a Gabriele e che noi due seguissimo a tempo pieno, ed esclusivamente, l’indagine sui Georgofili che aveva fin da subito imboccato la pista della mafia. La bomba ebbe un impatto enorme sulla città, Firenze fu colpita al cuore, e sentimmo l’appoggio della città alla nostra indagine, la vicinanza dei fiorentini che non volevano essere piegati dalla violenza e dalla mafia, anche se lavoravamo nell’isolamento dell’aula bunker alle Murate». Un impatto che durò a lungo (anche se poi si affievolì tanto che al processo, iniziato nel novembre 1996 Chelazzi denunciò il silenzio sceso sulla vicenda) e segnò l’anno delle stragi mafiose sul continente che vide anche le bombe di via Palestro a Milano e di San Giovanni al Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma. «Redassi io l’imputazione per i reati di strage e devastazione — ricorda Nicolosi — e nella ricognizione dei danni alle opere scrivemmo che “I giocatori di carte” del Manfredi, che adesso è in corso di restauro, era andato perduto per sempre... Scrivemmo anche allora, e oggi resta valido, che eravamo di fronte a uno scenario di guerra, simile solo alle devastazioni naziste dell’agosto del 1944, con Firenze epicentro di quel 1993 in cui al mafia adottò la strategia di attaccare con metodo di tipo terroristico il patrimonio artistico per piegare lo Stato. Era una cosa che non si era mai vista, né a Firenze né in Italia, nè nel mondo. “Li prenderemo” disse Vigna ancora a macerie fumanti e così fu».