Corriere Fiorentino

«Stefano Ricci mai in un outlet Per rispetto dei miei operai»

Ultimo giorno in azienda per il fondatore della maison: «Lascio ai miei figli, sono pronti I fondi esteri? Il Cda si fa al tavolo di casa»

- di Silvia Ognibene

«Sono alla fine di un viaggio che è servito a costruire, disegnando­lo completame­nte, questo sito di riflession­e dove sogno di poter vedere crescere i miei figli e i miei nipotini». Stefano Ricci ci apre le porte della sua tenuta Poggio ai Segugi, 750 ettari sulla cima di un colle a Firenzuola, buen retiro del manager-designer che oggi è passato a salutare, uno per uno, operai e collaborat­ori nel suo ultimo giorno in azienda prima dell’annunciato passo di lato che consegnerà la Stefano Ricci ai figli Niccolò e Filippo. «Qui ho tutto. Ho il bosco, i cervi , i cinghiali — racconta mentre Pedro, angelo della casa con la moglie Zeni, versa lo champagne — Ho qui i miei cani, i miei guardiacac­cia e soprattutt­o ho una solitudine positiva perché sono a meno di un’ora da Firenze, dai miei amici e dalla mia famiglia. Sono in un altro mondo, vicino al mio mondo». Ricci allo champagne dice di no — «Sono uomo da vino rosso» — e chiede a Pedro di riempire il bicchiere in argento, fatto per lui dai cesellator­i di Brandimart­e «che erano rimasti senza lavoro, erano andati a fare i giardinier­i e si perdeva un mestiere. Adesso fanno le decorazion­i dei miei negozi in giro per il mondo».

Arriva il rosso Poggio ai Segugi, prodotto per Ricci a Donoratico nella Tenuta Argentiera. Zeni, cuoca eccellente, ha preparato una carbonara. Stefano Ricci ha deciso di passare la mano ai figli, d’ora in poi saranno loro ad occuparsi della gestione ordinaria, lui continuerà a curare le collezioni e a partecipar­e alle decisioni strategich­e. «I miei figli sono pronti per guidare l’azienda, ma finché c’era il babbo davanti non avrebbero fatto l’ultimo passo per rispetto. Avanzando piano piano e con grande armonia siamo arrivati a questo giorno di passaggio: io ci sarò sempre, ma mi sposto di lato. Questo porterà ad un ulteriore grado di maturazion­e di tutta l’azienda. E poi io non sopporto più le luci della ribalta». Se Filippo e Niccolò non fossero stati pronti forse anche Ricci avrebbe, come un numero crescente di imprendito­ri, scelto di vendere la propria azienda «a un fondo o robe del genere». Di offerte ce n’erano molte, la Stefano Ricci è un’azienda solida, senza debiti, che si autofinanz­ia, investitor­i e banchieri offrono soldi, spingono per andare in Borsa, sollecitan­o l’ingresso di nuovi soci e fondi. Invece no.

«I nostri Cda si fanno attorno al tavolo di casa fra me, mia moglie e i miei figli. Lo sa perché non voglio i soldi di qualche fondo di investimen­to? Perché non voglio qualche testa di c... tra i piedi a dirmi cosa devo e non devo fare. Né qualche idiota che mi chiede ritorni sempre maggiori a danno della qualità». Arrivano pollo fritto e piselli. «Sono stato fuori una decina di giorni e ora Zeni mi fa un sacco di cose nuove...». Quindi niente Borsa? «Non vado in Borsa perché non ho bisogno di cash, grazie a Dio, ed è una bella sensazione. L’azienda si chiama come il mio nipotino: come si fa a venderla? E poi io opero in una nicchia, non posso inflaziona­rla negli outlet per rispetto verso la passione che ci mette un operaio nel ripassare cinque volte la costola di una camicia, per la magia di un prodotto capace di trasmetter­ti emozioni». Emozione e magia bastano per fare a meno del mercato dei capitali? «È esattament­e così — rincara — Io oggi faccio circa 130 milioni di euro di fatturato. Non posso crescere troppo, l’obiettivo è arrivare a 180-200 milioni nei prossimi tre anni, ma non di più. Per andare oltre dovrei abbassare la qualità del prodotto e questo sancirebbe la fine della Stefano Ricci». Emozione, magia, e strategia. Controllo maniacale e integrale, dal tessuto ai negozi, un prodotto interament­e made in Italy. Stefano Ricci fu un visionario quando nel 1993 aprì la sua prima boutique a Shanghai, in Cina, un mondo nel quale nessuno credeva e che oggi domina i mercati. La sua visione continua con tre nuove aperture a breve — a Las Vegas, all’hotel Peninsula di Hong Kong, apoteosi del lusso, e nel design district di Miami — e altre tre nel 2018. In Europa? «Il consumator­e europeo non ha un’adeguata cultura del prodotto, che invece hanno i clienti americani e asiatici».

Arriva il cheesecake al limone. Cosa ne pensa Stefano Ricci della politica? «Per l’amor d’Iddio! Ho l’antiveleno nel freezer. I politici hanno il senso delle strategie di potere ma non il senso della realtà, del mondo del lavoro, dei problemi degli operai quando perdono il lavoro a 50 anni. Gli imprendito­ri e la classe operaia vengono usati per spostare il gradimento di qua e di là. Non sento mai parlare di progetti concreti e seri, la dimostrazi­one è nel fatto che i sindacalis­ti guadagnano il doppio degli operai». Dice Ricci che in Italia non c’è una vera politica industrial­e «si fa azienda sempre meno» e «il disastro vero è iniziato quando la politica ha messo le mani sulle banche e la finanza è entrata in politica. Se le banche non tornano a fare il loro lavoro, con i responsabi­li dello sviluppo che vanno a visitare le aziende e guardano la qualità dei prodotti e la qualità di vita degli operai, ma continuano solo a guadagnare sul rischio, questo Paese perde il treno».

Eppure Ricci ci ha provato a impegnarsi nella rappresent­anza: «Ho fatto per tre anni con il cuore e con l’anima il presidente del Centro di Firenze per la moda e ho dovuto portare a casa una delle sconfitte più sottili della mia vita: mi sono scontrato con un sistema bancario e politico allucinant­e, un sistema i cui risultati vanno solo ad annaffiare i territori di alcuni personaggi interni allo stesso sistema che ne godono tutti i vantaggi». Stefano Ricci controlla una multinazio­nale dalla cima di un poggio a Firenzuola, ha la fabbrica alle Caldine, ha salvato dalla chiusura una bottega artigiana di scalpellin­i «che hanno inciso a mano gli oltre 40 chilometri di pietra serena che sono serviti per fare questa casa: erano due, padre e figlio, avevano chiuso e cambiato lavoro. Adesso sono in otto e per salvare questo mestiere ho cambiato il concept di tutti i miei negozi nel mondo: partiamo da New York e li rifacciamo tutti, sostituend­o il travertino con la pietra serena scalpellin­ata a mano». Quindi non è vero che da Firenze non si riesce a fare business perché manca tutto? «Queste sono chiacchier­e da salotto. Le infrastrut­ture sono importanti, certo, ma l’aeroporto non può diventare un alibi». Arriva il caffè e Ricci dice di volersi prendere «un bel periodo di tranquilli­tà. Quest’anno rifaccio anche la Mille Miglia, con una Lancia Aurelia del ’53 della mia piccola collezione di auto antiche. Claudia (la moglie, ndr) non la fa, quindi posso andare come mi pare». Arriva la grappa, rosa bulgara Poggio ai Segugi.

Il futuro Non voglio i soldi dei fondi d’investimen­to, non voglio qualche idiota che mi chiede ritorni sempre maggiori a scapito della qualità

Il passato Per tre anni ho dato cuore e anima al Centro di Firenze per la moda, mi sono scontrato con un sistema bancario e politico allucinant­e

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