FINE VITA, IL PARADOSSO DEI DUE OSTAGGI (MEDICI E PAZIENTI)
Caro direttore, l’esperienza dell’ex-presidente della Provincia di Firenze, Michele Gesualdi, riportata con un’atroce quanto lucida puntualità nella lettera pubblicata dal Corriere Fiorentino il primo novembre scorso, oltre a destare una sincera compassione (nell’accezione di «vicinanza nella sofferenza») umana e cristiana, offre molti spunti di meditazione alcuni dei quali trascendono persino il piano religioso ed etico per posizionarsi sul versante culturale della natura di un progresso che sta «incartando» l’uomo.
La richiesta-appello di Gesauldi appare talmente umana da gridare vendetta: concedete — per legge — la possibilità a chi soffre di malattie incurabili di evitare ogni forma assurda (quindi inumana) di accanimento terapeutico. Consentite al malato ed ai suoi familiari di vivere naturalmente questo scorcio di percorso terreno senza «sfidare» le regole della vita. Naturalità, ecco la questione. Ormai per essere liberi di «morire naturalmente» serve una legge. Siamo arrivati all’assurdo di doverci tutelare — per legge — da un «cieco» progresso per tentare di ritrovare una qualche dimensione umana e, con essa, maturare la consapevolezza della nostra fragilità.
Gesualdi descrive in modo delicato e potente, come solo la sofferenza sa suggerire, come la sfida al male si traduca — in specifici casi — in una tortura inutile, aggiuntiva e gratuita. Anche da un punto di vista deontologico, il buon senso sembra aver ceduto il passo alla pura ed inumana sfida al destino. E la libertà di viversi come uomini fragili e mortali sembra essere costantemente messa a ferro e fuoco da un paradigma positivistico che ben poco ha di ragionevole e di positivo. Siamo arrivati al paradosso del «malato ostaggio della medicina», quando la medicina è nata come servizio all’uomo. Ma non basta, come ricorda Gesualdi. La realtà descrive persino un medico «ostaggio» della propria professione, tanto da richiedere una legge che «tuteli i medici» da eventuali, libere e consapevoli scelte del malato. Un’aberrazione frutto di un equivoco culturale: aver sovrapposto e non distinto il progresso dallo sviluppo.
Ciò che spesso viene «venduto» per progresso altro non è che semplice «strumento tecnologico» a cui viene ispirato ed indissolubilmente abbinato un protocollo medico. Protocollo che, come in questo caso, obbliga medico e malato tanto da richiedere una legge che liberi entrambi. Gesualdi, a cui va la gratitudine di aver offerto il proprio cammino di sofferenza quale dono di meditazione, sembra prefigurare l’uomo di un domani ormai alle porte: un uomo sempre meno autenticamente libero, imbrigliato dalle sue stesse alchimie scientifico-tecnologiche, prigioniero della propria ansia di «dominio». Il problema non sono né la scienza né la tecnologia bensì l’assuefazione ad un sistema di valori che snatura l’idea stessa di uomo, di natura, di scienza e di vita.