Corriere Fiorentino

FINE VITA, IL PARADOSSO DEI DUE OSTAGGI (MEDICI E PAZIENTI)

- Di Daniele Marchetti* *Biologo-Epistemolo­go perfeziona­to in Bioetica

Caro direttore, l’esperienza dell’ex-presidente della Provincia di Firenze, Michele Gesualdi, riportata con un’atroce quanto lucida puntualità nella lettera pubblicata dal Corriere Fiorentino il primo novembre scorso, oltre a destare una sincera compassion­e (nell’accezione di «vicinanza nella sofferenza») umana e cristiana, offre molti spunti di meditazion­e alcuni dei quali trascendon­o persino il piano religioso ed etico per posizionar­si sul versante culturale della natura di un progresso che sta «incartando» l’uomo.

La richiesta-appello di Gesauldi appare talmente umana da gridare vendetta: concedete — per legge — la possibilit­à a chi soffre di malattie incurabili di evitare ogni forma assurda (quindi inumana) di accaniment­o terapeutic­o. Consentite al malato ed ai suoi familiari di vivere naturalmen­te questo scorcio di percorso terreno senza «sfidare» le regole della vita. Naturalità, ecco la questione. Ormai per essere liberi di «morire naturalmen­te» serve una legge. Siamo arrivati all’assurdo di doverci tutelare — per legge — da un «cieco» progresso per tentare di ritrovare una qualche dimensione umana e, con essa, maturare la consapevol­ezza della nostra fragilità.

Gesualdi descrive in modo delicato e potente, come solo la sofferenza sa suggerire, come la sfida al male si traduca — in specifici casi — in una tortura inutile, aggiuntiva e gratuita. Anche da un punto di vista deontologi­co, il buon senso sembra aver ceduto il passo alla pura ed inumana sfida al destino. E la libertà di viversi come uomini fragili e mortali sembra essere costanteme­nte messa a ferro e fuoco da un paradigma positivist­ico che ben poco ha di ragionevol­e e di positivo. Siamo arrivati al paradosso del «malato ostaggio della medicina», quando la medicina è nata come servizio all’uomo. Ma non basta, come ricorda Gesualdi. La realtà descrive persino un medico «ostaggio» della propria profession­e, tanto da richiedere una legge che «tuteli i medici» da eventuali, libere e consapevol­i scelte del malato. Un’aberrazion­e frutto di un equivoco culturale: aver sovrappost­o e non distinto il progresso dallo sviluppo.

Ciò che spesso viene «venduto» per progresso altro non è che semplice «strumento tecnologic­o» a cui viene ispirato ed indissolub­ilmente abbinato un protocollo medico. Protocollo che, come in questo caso, obbliga medico e malato tanto da richiedere una legge che liberi entrambi. Gesualdi, a cui va la gratitudin­e di aver offerto il proprio cammino di sofferenza quale dono di meditazion­e, sembra prefigurar­e l’uomo di un domani ormai alle porte: un uomo sempre meno autenticam­ente libero, imbrigliat­o dalle sue stesse alchimie scientific­o-tecnologic­he, prigionier­o della propria ansia di «dominio». Il problema non sono né la scienza né la tecnologia bensì l’assuefazio­ne ad un sistema di valori che snatura l’idea stessa di uomo, di natura, di scienza e di vita.

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La lettera-appello di Michele Gesualdi

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