Nel bazar senza italiani «Non hanno più voglia...»
Il presidente degli ambulanti: solo stranieri nei miei 6 banchi di famiglia, ci stanno 365 giorni l’anno
Il presidente del consorzio degli ambulanti di San Lorenzo Renato Coppola ha sei banchi «di famiglia». E nessun italiano che ci lavora: «Ho solo stranieri, solo loro hanno voglia di lavorare 365 giorni l’anno».
Al mercato di San Lorenzo, i bancarellai italiani sono una rarità, sono quasi più introvabili di una cintura di pelle buona. In mezzo a una giungla di borse e giubbotti «made in Italy», che gli stessi ambulanti confessano essere stati fabbricati negli stabilimenti cinesi dell’Osmannoro, si incrocia ormai un italiano ogni quattro stranieri. Persino gli iraniani e gli ucraini che una volta popolavano via dell’Ariento sono diventati una minoranza. Ormai, quasi tutti arrivano dall’Asia meridionale: bengalesi, per gran parte, e anche pachistani. Tra chi il banco se lo compra a rate, chi ha qualche oscuro finanziatore alle spalle e chi — la maggioranza — lavora alle dipendenze di italiani, capita anche di trovarsi di fronte a un ambulante che l’italiano non lo parla neppure. «Non voglio dire che qui ci sia un’organizzazione criminale, ma di fatto gli italiani sono sempre più allontanati dai banchi di San Lorenzo: c’è come un’alleanza che ci gioca a sfavore», racconta uno storico ambulante fiorentino, proprietario di un banco in cui materialmente lavora un dipendente bengalese.
«Quando aveva un dipendente italiano, i banchi vicini facevano di tutto per rovinargli il lavoro. Se arrivava un cliente e guardava una cintura a dieci euro, quello accanto lo prendeva per braccio, lo tirava via e gli vendeva la stessa cintura a otto. Da quando ci ho messo il bengalese non succede più, tra di loro non si fanno la guerra». Una guerra di prezzi che per l’ex ambulante fiorentino si configura in vero e proprio «dumping»: «È una questione di stile di vita: se stai in una casa con tanti coinquilini, se giorno e sera mangi solo riso in bianco, se non hai da portare fuori a cena la moglie o la ragazza, è chiaro che puoi permetterti di far la buccia a un concorrente italiano, se vuoi, e abbassare il prezzo della merce per farlo fuori».
Del resto, la merce, è la stessa per tutti: rispetto a qualche anno fa sono persino diminuiti i souvenir e le mutande col pisello del David, ormai quasi esclusiva dei primi banchi di via dell’Ariento, quelli più vicini a piazza San Lorenzo. Per il resto è un concerto monocorde di pellame: borse, giubbotti e cinture tutte uguali. «Guarda questa bella borsa — se la ride un pakistano — la chiamiamo pelle soffiano: è tosta, sembra plastica, ma almeno non si graffia mai». La stessa borsa, prodotta nelle pelletterie tradizionali con materiali buoni e nelle fabbriche cinesi con roba scadente, può scendere di prezzo all’ingrosso dai 50 ai 20 euro. Ma gli italiani che assumono dipendenti stranieri non lo fanno solo per il rischio di «dumping». «I giovani italiani non hanno più voglia di fare questo tipo di lavoro — dice Renato Coppola, presidente del consorzio di San Lorenzo, i cui famigliari sono proprietari di sei banchi — Non si trovano più italiani disposti a stare al banco dalle sette di mattina fino alle otto di sera, sette giorni a settimana, 365 giorni all’anno, col freddo, col vento, sempre, anche di domenica. Gli stranieri invece hanno voglia di lavorare». Ferie e festività non esistono. Per lo meno, assicura Coppola, in San Lorenzo i dipendenti non sono assunti al nero.
Ora, i cittadini del Bangladesh cominciano a diventare anche proprietari. C’è chi racconta di aver comprato un banco a rate. Ma c’è anche il pakistano che spiega di lavorare per un bengalese che di banchi ne ha due. E via via, gli italiani vendono. «Dopo il trasloco voluto da Renzi, i banchi hanno perso di valore, molti li svendono», dice Coppola. Ma per avviare l’attività anche solo in una delle zone meno nobili (come piazza del Mercato Centrale), comprare la licenza, pagare i tributi e acquistare un minimo di merce servono almeno 60 mila euro. «C’è un proprietario di banchi che vive in Bangladesh e in Italia non credo abbia mai messo nemmeno piede – spiega un dipendente – Di lui ho visto una foto, vive in un palazzo di lusso… Roba da ricchi. Da làggiù dà lavoro a chi è arrivato in Italia». San Lorenzo sembra sempre più un bazar in franchising. Tra le borse «made in Osmannoro», i capitali asiatici, e la lingua bengalese che ha rimpiazzato il vernaholo dei banchi di una volta.
Chi si è arreso Ho dovuto assumere un bengalese perché altrimenti i suoi connazionali mi facevano concorrenza sleale