Inquinamento ambientale, inchiesta sull’ex Lucchini
Piombino, il racconto degli operai: «Ci avevano promesso la bonifica, non c’è mai stata»
PIOMBINO Per anni, a respirare amianto senza protezione e a seppellire rifiuti speciali in un terreno accanto alla fabbrica. «Alla ex Lucchini si lavorava così», raccontano negli esposti presentati alla Procura di Livorno. Per questo, c’è un’inchiesta giudiziaria, al momento senza indagati, che ipotizza l’inquinamento ambientale.
PIOMBINO Per anni, a respirare amianto. Gli operai hanno fasciato tubi con i fili di quella fibra pericolosa, tagliato e spezzato lastre fatte di quel materiale cancerogeno, quasi privi di protezione. «Alla ex Lucchini si lavorava così: con i guanti ma senza mascherina. Non sapevamo che anche così rischiavamo di avvelenarci», raccontano ora carpentieri e meccanici negli esposti presentati alla Procura di Livorno. In quelle pagine, c’è anche una storia di rifiuti abbandonati e mai correttamente smaltiti, anzi seppelliti tra le officine dello storico stabilimento. Per questo, c’è un’inchiesta giudiziaria, al momento senza indagati, che ipotizza l’inquinamento ambientale.
Svetta imponente l’alto forno del polo siderurgico, che si estende per nove chilometri lungo la costa tra Piombino e Baratti. Ma ormai non fuma come un tempo. È spento dal 2014. «Abbiamo respirato amianto — spiega Enrico, carpentiere da venti anni, di cui nove trascorsi alla ex Lucchini — era dappertutto: nelle trecce di fibra che utilizzavamo per rivestire le guarnizioni dei tubi di vapore, nelle lastre che tagliavamo a misura per coibentare i forni. Unica protezione: caschi e guanti». Neanche la tosse stizzosa ferma il racconto di Enrico. In particolare nella cokeria (reparto in cui si distilla il carbon fossile prima di mescolarlo al ferro per ottenere l’acciaio) «mentre i forni arrivavano a temperature superiori ai 250 gradi, riparavamo tubature senza mascherina di protezione a ritmo cadenzato: tre minuti di lavoro in quell’inferno e dieci all’aria aperta per respirare. Chi protestava e reclamava maggiore sicurezza veniva spostato in un altro reparto». Ricorda un controllo della Usl: «Indicai a un ispettore una cabina elettrica rivestita di amianto sul carroponte, sospeso sulle nostre teste. Rispose con naturalezza che bastava non spostarla per non far diffondere le fibre nel reparto». La sua voce si incrina: «Eppure ero orgoglioso di appartenere alla Lucchini, almeno all’inizio. Il mio è un lavoro manuale e lo faccio con passione. O almeno lo facevo». Già perché Enrico è come gli oltre duemila operai vincolato a un contratto di solidarietà alle acciaierie che sono ora in mano ad Aferpi.
Dovrebbero lavorare tutti, a turno, in realtà pare che a varcare i cancelli dello stabilimento siano solo seicento persone, quasi sempre le stesse e a stipendio ridotto. E tutti ancora, a contatto con l’amianto. «In alcuni capannoni dello stabilimento siderurgico — racconta Sergio operaio da 22 anni e i sintomi di una malattia difficile da diagnosticare con cui convivere — sono ancora accatastati lastre e rotoli di quella maledetta fibra, nonostante già nel 2002 gli ispettori della Usl avessero imposto la rimozione di quel materiale. A distanza di quindici anni è ancora tutto lì. Qualche collega si è ammalato e non c’è più, altri combattono con tumori e problemi respiratori. Non è certo che siano stati provocati dall’ambiente di lavoro, ma – sottolinea con un lungo sospiro — il sospetto c’è. Quando arrivai alla Lucchini, ero contento di lavorare per un’azienda importante. L’acciaieria di Piombino era seconda solo alla Ilva di Taranto». E ora? «Mi sento tradito. E ho paura» risponde Enrico. Paura del futuro. «Nel 2015 — racconta Carlo, stringendo l’esposto tra le mani nodose che hanno battuto e tagliato lamine di amianto — con la cessione della Ex Lucchini ad Aferpi, abbiamo sperato in un rilancio dell’azienda».
In quell’accordo firmato da politici e imprenditori, era prevista una serie di interventi di bonifica per consentire la riconversione del polo industriale. Avrebbero dovuto rimuovere e smaltire i rifiuti depositati nella cittadella dell’acciaio. «Ma — prosegue — nulla è stato fatto. Tra l’officina e il parco per la rottamazione, vicino al reparto carpenteria, abbiamo sotterrato i siluri, ormai fuori uso. Per ben due volte, nel 2013 e nel 2014. Quei rifiuti che dovevano essere smaltiti con procedure speciali, sono stati interrati, come se nulla fosse alla luce del giorno». I vagoni siluri, serpentoni lunghi sedici metri, trasportavano la ghisa, ancora incandescente e liquida, dall’alto forno fino al convertitore, dove veniva plasmata e trasformata in rotaie, sbarre e bobine. Per treni, automobili e aerei. «Bastava un ordine: “c’è da sotterrare”. E si cominciava», racconta l’operaio. «Le operazioni di pulizia si facevano a due passi dall’officina: c’era chi c’era chi con l’escavatore preparava la buca profonda fino a quattro metri e chi con la fiamma ossidrica tagliava e separava i siluri dai carri che a loro volta venivano riciclati. Poi, i cilindri cadevano, con un suono sordo, nella terra. Tutto è avvenuto tra il 2013 e il 2014, periodo in cui la Lucchini era già in stato di amministrazione straordinaria». Per capire la gestione dello stabilimento occorre fare un passo indietro. Nel 2012, non sembrava esserci quasi più futuro per il polo siderurgico di Piombino. Da lì a qualche mese, la Lucchini fu sottoposta ad amministrazione straordinaria dal Ministero per lo sviluppo Economico che nominò commissario Piero Nardi. Poi nel 2015, sembrò aprirsi uno spiraglio. Le acciaierie vengono ceduto all’Aferpi, in mano al Gruppo Cevital di Issad Rebrab. L’imprenditore algerino, a capo di un colosso agroalimentare si impegnò a riaccendere l’alto forno, ad incrementare la produzione e a trasformare il poro di Livorno in una piattaforma logistica nel Mediterraneo. E a rimuovere amianto e scarti di lavorazione. Invece, ancora oggi la produzione è ferma. «E, dopo anni, i rifiuti sono ancora lì — dice Carlo — com’è possibile che uno stabilimento gestito sotto il controllo del governo possa trasformarsi in una discarica? I dubbi restano, ma non mi arrendo. Non dimentico chi aveva fatto grande con il proprio lavoro questa azienda e ora non c’è più».
Abbiamo scavato con le ruspe e messo sotto terra siluri di metallo che dovevano essere trattati come materiali speciali: tutto è avvenuto tra il 2013 e il 2014