Corriere Fiorentino

TRE DOMANDE SUL FINE VITA

- di Enrico Nistri

Quando Giovanni Papini scrisse la Storia di Cristo, molti non credettero alla sincerità della sua conversion­e. Che il bestemmiat­ore smargiasso delle Memorie di Dio fosse diventato un devoto suscitava qualche dubbio nelle sagrestie. Ma qualcosa fugò queste incertezze, quando negli ultimi anni della sua vita, cieco e murato vivo nella prigione del suo corpo da una paralisi progressiv­a, lo scrittore non solo non perse la fede, ma dettò a gesti le sue opere più cristianam­ente ispirate. Di Papini ne nasce uno solo in un secolo (per fortuna, penserà qualcuno) e le leggi si scrivono per le maggioranz­e. Per una persona che riesce a sublimare la sofferenza, ve ne sono tante per cui la condanna a vivere sepolti in un afasico dolore suscita solo disperazio­ne e induriment­o dell’animo. Fin dagli anni ‘50 Pio XII elaborò una distinzion­e tra interventi medici ordinari e straordina­ri, omissibili questi senza colpa. Papa Francesco, nella lettera a Michele Gesualdi, preoccupat­o per il suo futuro di malato di Sla, non ha aggiunto molto di nuovo. Anche la telefonata del cardinal Betori all’allievo prediletto di don Milani, in cui gli ha manifestat­o le sue perplessit­à sulla campagna per l’approvazio­ne della legge sul testamento biologico, non manca però di un’intima coerenza. Altro è tagliare l’alimentazi­one a un malato terminale, altro indulgere a un faustiano accaniment­o terapeutic­o: è sempre labile il crinale fra fare e lasciar fare. È legittima la preoccupaz­ione che la legge sul fine vita apra un varco all’eutanasia attiva, magari, come ha osservato il cardinale, sull’onda di una certa «giurisprud­enza creativa». Ma è onesto aggiungere che l’assenza di una legge rischia di lasciare il fine vita nelle mani dei magistrati, spalancand­o margini di arbitrio ancora maggiori. Il dibattito sul testamento biologico sollecita però altri interrogat­ivi. Siamo sicuri che il vero problema sia l’accaniment­o terapeutic­o e non il suo contrario: la desistenza selettiva dalle cure nei confronti dei pazienti più anziani, che l’odierna cultura efficienti­stica considera non più un dono, ma un onere per la società e l’Inps? Non c’è il rischio di aprire la strada a forme più subdole di eutanasia coatta od occulta, motivate con l’esigenza di «ottimizzar­e» le dissanguat­e risorse della sanità? Sono domande che attendono risposta. E ad esse se ne potrebbe aggiungere un’altra: quando abbiamo detto «ha finito di soffrire» di un familiare scomparso dopo una lunga malattia, siamo proprio sicuri di non aver pensato dentro di noi «ha finito di farci soffrire»?

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