TRE DOMANDE SUL FINE VITA
Quando Giovanni Papini scrisse la Storia di Cristo, molti non credettero alla sincerità della sua conversione. Che il bestemmiatore smargiasso delle Memorie di Dio fosse diventato un devoto suscitava qualche dubbio nelle sagrestie. Ma qualcosa fugò queste incertezze, quando negli ultimi anni della sua vita, cieco e murato vivo nella prigione del suo corpo da una paralisi progressiva, lo scrittore non solo non perse la fede, ma dettò a gesti le sue opere più cristianamente ispirate. Di Papini ne nasce uno solo in un secolo (per fortuna, penserà qualcuno) e le leggi si scrivono per le maggioranze. Per una persona che riesce a sublimare la sofferenza, ve ne sono tante per cui la condanna a vivere sepolti in un afasico dolore suscita solo disperazione e indurimento dell’animo. Fin dagli anni ‘50 Pio XII elaborò una distinzione tra interventi medici ordinari e straordinari, omissibili questi senza colpa. Papa Francesco, nella lettera a Michele Gesualdi, preoccupato per il suo futuro di malato di Sla, non ha aggiunto molto di nuovo. Anche la telefonata del cardinal Betori all’allievo prediletto di don Milani, in cui gli ha manifestato le sue perplessità sulla campagna per l’approvazione della legge sul testamento biologico, non manca però di un’intima coerenza. Altro è tagliare l’alimentazione a un malato terminale, altro indulgere a un faustiano accanimento terapeutico: è sempre labile il crinale fra fare e lasciar fare. È legittima la preoccupazione che la legge sul fine vita apra un varco all’eutanasia attiva, magari, come ha osservato il cardinale, sull’onda di una certa «giurisprudenza creativa». Ma è onesto aggiungere che l’assenza di una legge rischia di lasciare il fine vita nelle mani dei magistrati, spalancando margini di arbitrio ancora maggiori. Il dibattito sul testamento biologico sollecita però altri interrogativi. Siamo sicuri che il vero problema sia l’accanimento terapeutico e non il suo contrario: la desistenza selettiva dalle cure nei confronti dei pazienti più anziani, che l’odierna cultura efficientistica considera non più un dono, ma un onere per la società e l’Inps? Non c’è il rischio di aprire la strada a forme più subdole di eutanasia coatta od occulta, motivate con l’esigenza di «ottimizzare» le dissanguate risorse della sanità? Sono domande che attendono risposta. E ad esse se ne potrebbe aggiungere un’altra: quando abbiamo detto «ha finito di soffrire» di un familiare scomparso dopo una lunga malattia, siamo proprio sicuri di non aver pensato dentro di noi «ha finito di farci soffrire»?