Se all’ex rottamatore adesso serve una squadra
Settimana di cordialissimi saluti. Non c’è più Giuliano Pisapia, che alla fine ha interrotto la novella dello stento della sinistra salutando la curva del Pd. Non c’è più Angelino Alfano, che si ritira a scrivere memorie e non si candiderà il prossimo anno, né — assicura — farà il ministro (di tutti questi annunciati addii, dall’ex sindaco di Milano allo scrittore di viaggi Alessandro Di Battista, è opportuno prendere nota, non fosse altro per vedere quanto ci metterà qualcuno di loro a tornare al proprio posto, perché la patria lo chiede, la gggente pure e l’ambizione personale è lì che titilla le coscienze).
E adesso che fa Matteo Renzi nella sua solitudine non del tutto splendida? Si ritrova con una legge elettorale voluta dal Pd e soprattutto dall’ala coalizionista guidata dall’ineffabile Dario Franceschini che prevede le coalizioni, solo che lo stesso Pd non ha una coalizione e punta, per recuperare consensi e ridurre i danni, ai voti dei montiani del 2013, dispersi chissà dove ma comunque presenti nella società e in attesa di un imprenditore politico cui rivolgersi. Si tratta di recuperarli, o quantomeno di provare a non regalarli al centrodestra, e chi o cosa potrebbe servire a quest’operazione? Intanto rendersi riconoscibile a quell’elettorato, magari grazie al contributo di qualche personalità appartenente a quel mondo. Per intendersi: come si muoverà Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo Economico, ex Scelta Civica, molto attivo su alcune partite centrali (vedi l’Ilva)? Dice che non vuole candidarsi ma sogna sempre un partito riformista con cui discutere di temi reali. Su Twitter ha avviato venerdì scorso uno scambio con il segretario del Pd sulle tasse, con toni fermi ma cordiali: «Ma se invece di slogan meno tasse e più deficit per tutti — ha detto a Renzi — il Pd proponesse programma in linea con le tante cose buone/ serie fatte da te e Gentiloni: più investimenti, meno costo del lavoro, più riforme, meno debito, giovani/imprese al centro, meno veti locali, più concorrenza». «Lavoriamoci, Carlo», ha risposto Renzi. «Come sai la posizione “più deficit” era spinta da diversi Ministri, quando eravamo insieme a Palazzo Chigi (qui c’era una emoticon sorridente, ndr). Sul “meno tasse” si tratta di capire come, quando e cosa. Sul resto sono d’accordo: aspettiamo te e le tue idee. Al lavoro, per l’Italia».
Vedremo come proseguirà il dialogo in futuro, ma intanto da questo scambio si intravede una possibilità che Renzi ha per non perdere le elezioni: puntare sulla squadra per cercare di vincere. È paradossale per uno come lui, ma se lo schema del Pd è soli contro il resto del mondo, laddove il mondo è composto anche da agguerriti populisti, non rimane che evidenziare le differenze: è meglio Pier Carlo Padoan o la deputata-tesoriera Laura Castelli del M5s, che l’altra sera a Otto e Mezzo non ha saputo neanche spiegare dove e come si trovano le coperture per il reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia del partito di Grillo, e ha cincischiato sull’euro (uscire? Sì, no, boh, forse). È meglio Paolo Gentiloni oppure Luigi Di Maio, che non conosce neanche il significato delle parole che usa, pensa che «inopinabile» voglia dire «incontrovertibile» (mentre invece è sinonimo di «imprevedibile») e dice «alter ego» al posto di «omologhi»? È meglio Graziano Delrio o qualche no-tav, no-triv, no-tap, no-a tutto? È meglio Marco Minniti o Matteo Salvini, che continua a denunciare un’invasione inesistente (meno 32,90 per cento nel periodo tra il primo gennaio e il 7 dicembre 2017 rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso)?
Certo, investire sulla squadra per massimizzare i voti comporta una dose di rischio non indifferente per Renzi: qualcuno dei succitati ministri, Minniti in testa, potrebbe in effetti fregargli la scena. Il già citato Calenda, per dire, non potrebbe a un certo punto ambire alla presidenza del Consiglio? Cedere sovranità per valorizzare la squadra è difficile, Renzi dovrebbe persino accettare di esporsi pubblicamente meno (il che peraltro non è un male quando non si sa bene che cosa dire e ci si riduce a parlare di commissioni d’inchiesta sulle fake news), ma è un’alternativa migliore rispetto a quanto visto finora. La strategia dell’arroccamento non ha portato finora brillanti risultati.
Se lo schema del Pd è «noi soli contro tutti», Renzi può massimizzare i voti solo valorizzando altre personalità, da Minniti a Calenda Ma questo significa cedere sovranità (anche mediatica)