LA LENTEZZA DI TANTI COMUNI
L’andamento degli investimenti degli enti territoriali (come i Comuni) rischia di rappresentare un’altra di quelle contraddizioni che hanno reso sciaguratamente celebre il nostro Paese. Evocati da tutti come motore di una vera ripresa, e soffocati per anni dai vincoli del Patto di stabilità interno, una volta che questi vincoli sono stati attenuati con una normativa meno restrittiva, gli investimenti pubblici stentano a riprendere, anzi si contraggono. Un fenomeno che, oltre a costituire un nuovo oggettivo «fallimento» dell’intervento pubblico nel nostro Paese, scatena i nostri numerosi detrattori in giro per l’Unione europea, i quali male hanno digerito gli spazi di flessibilità concessi all’Italia, utilizzati, secondo loro, per una «cattiva» spesa pubblica corrente.
Nel 2016, grazie alla nuova normativa, i Comuni potevano investire utilizzando i saldi positivi di competenza e le disponibilità di cassa. Tuttavia, i Comuni che, potendolo fare, non lo hanno fatto rappresentano il 24% della popolazione e quelli che lo hanno fatto nell’anno arrivano appena al 13% della popolazione. I più hanno rinviato la decisione. Di conseguenza, nel 2016, i pagamenti in conto capitale sono diminuiti del 13%, così che le stime empiriche sugli investimenti non evidenziano effetti positivi della rinnovata disponibilità delle risorse. I Comuni hanno realizzato piuttosto un anacronistico eccesso di risparmio, tra i 3 e i 4 miliardi di euro. È successo in tutta l’Italia, ma con molte differenziazioni. Mentre in Toscana l’eccesso di risparmio consolidato di Regione, Province, Città metropolitana e Comuni raggiunge quasi i 400 milioni, Piemonte e Lombardia registrano un dato di poco più alto, essendo però regioni più grandi, mentre la Sicilia rasenta i 2 miliardi.
La legge di bilancio 2017 ha continuato (così come quella del 2018 recentemente approvata) a usare questo canale espansivo ma secondo stime Irpet il valore delle procedure avviate nei primi tre trimestri del 2017 è in linea con il 2016, ovvero al di sotto delle aspettative, e dei primi tre trimestri del 2015, anno —ricordiamolo— ancora sotto stress di austerità. Ma quali sono le cause di questa insoddisfacente performance delle nostre amministrazioni pubbliche locali? Perché questa cronica incapacità di programmare interventi di manutenzione o infrastrutturali, anche immateriali, con capitale pubblico?
La riforma della contabilità pubblica non ha aiutato. Molte amministrazioni, non dotate delle necessarie competenze di tecnica contabile, sono rimaste spiazzate e la distanza tra impegni e pagamenti è aumentata invece di diminuire. Poi, la nuova legge sui contratti ha complicato e quindi rallentato le procedure di aggiudicazione. Ha inciso anche una progressiva riduzione delle competenze legate alle risorse umane, a causa di un inesorabile invecchiamento e della mancanza di un adeguato ricambio generazionale, con l’assunzione di giovani tecnici pronti a innovare. E così, ancora una volta, si conferma che è un difetto di applicazione di riforme strutturali, anche buone, a frenare l’Italia.