«Con Marchesi finì lo stile trattoria»
Gli chef toscani raccontano come il maestro scomparso ha cambiato la nostra cucina
Esempio Mollica: essenzialità incredibile Viani: condizionati dallo stile incisivo
L’aglio e il pomodoro nella cucina di Gualtiero Marchesi non esistevano. Marco Garfagnini, uno degli ex allievi del maestro scomparso il giorno di Santo Stefano nella sua casa di Milano, sottolinea un discrimine netto tra la creatività marchesiana e la tradizione toscana. Ma si potrebbe dire con la tradizione in genere. «Eravamo rimasti indietro e Marchesi ha smosso tutte le acque», commenta Valeria Piccini del ristorante Caino di Montemerano in provincia di Grosseto.
«Prima di lui ricordo che al ristorante si cucinava soprattutto la mattina. La sua cucina immediata, espressa, preparata al momento di servire il cliente, quasi davanti al cliente, ha influenzato e rivoluzionato il mio come il modo di cucinare di molti colleghi. Marchesi ha tagliato il cordone ombelicale con la cucina da trattoria», ha aggiunto la cuoca due stelle Michelin.
Maestro nel senso rinascimentale del termine, con uno stuolo di allievi di successo, segnati anche da brevissimi stage. «Non posso definirmi discepolo di Marchesi – commenta Vito Mollica – per soli due mesi all’Albereta. Arrivavo dall’Inghilterra dopo due anni da Marco Pierre White, l’enfant terrible della cucina francese a Londra, la biografia del quale oggi è stata ripubblicata da Giunti e portata anche sul grande schermo. Venivo da tante guarniture, di salse e verdure, studiate per arricchire il piatto. Da Marchesi trovai un’essenzialità incredibile, niente salse eccetto per l’anatra al torchio o il rognone. Una cucina molto leggera, al limite del condimento. Era il più minimal nell’Europa dell’epoca». Era la metà Anni Novanta, la stessa stagione condivisa con Garfagnini che oggi è lo chef del tre stelle di Pierre Gagnaire a Parigi. «Nel nostro ristorante di Courchevel dove sono in questi giorni ho inserito in carta un “risotto Marchesi” oggi tutti i giornali francesi parlano del Maestro, lui è stato la Francia in Italia anche se in Toscana forse siamo stati influenzati più da Paracucchi che da Marchesi». Annie Féolde dell’Enoteca Pinchiorri in questi giorni a Nizza per la pausa natalizia ha detto agli amici che le chiedevano notizie che «Marchesi era il Paul Bocuse italiano». Lei, francese di origine, ha trovato nel Maestro un «esempio di classe inimitabile nell’accoglienza» dove per inimitabile lascia con delicatezza intendere di scuola «francese».
Lorenzo Viani del Forte ricorda quando «la cucina di Marchesi ci appariva discutibile per tutta quella innovazione e poi ci siamo ritrovati quasi condizionati da uno stile così incisivo, dalle presentazioni pulite ed eleganti del ristorante di via Bonvesin de la Riva». Romano Franceschini ha sottolineato l’amore di Marchesi «per le cose semplici, per le materie prime toscane delle quali era affascinato, anche se non amava come noi l’extravergine». Quel rispetto per gli ingredienti che fu alla base della Nouvelle Cuisine importata in Italia e destinata a cambiare la nostra cucina. Ultimo, ma non ultimo, Fulvio Pierangelini lascia trapelare un aspetto non meno importante del Maestro. La sua «strana generosità».
«Nei primi Anni Ottanta fui invitato da Veronelli a una riunione da Marchesi alla quale seguiva una cena. Io all’epoca ero un giovane di belle speranze, ma con pochi soldi. Marchesi dovette intuire che non potevo permettermi il suo ristorante perché m’invito a restare a mangiare in cucina con sé. Qualche tempo fa ho contraccambiato sulla mia terrazza a Roma. Ma non abbiamo mai parlato di cucina — continua Pierangelini — lui credeva che fosse una scienza precisa, per me la cucina è l’istante, la sensibilità e l’emozione pur legate a un tecnica. Eravamo come due orbite parallele. Rispetto e affetto. Voglio ricordarlo così».