Corriere Fiorentino

IL SENSO DELLA VITA CHE SPIEGA INIZIO E FINE

- di Suor Maria Fernanda Dima*

Caro direttore, alcuni giorni fa una telefonata giunta all’improvviso mi ha comunicato l’aggravarsi delle condizioni di salute e, a breve distanza, la morte di una persona spiritualm­ente a me molto vicina.

Si tratta di un’amica cara, con cui in passato ho potuto condivider­e tanto cammino e realizzare insieme varie iniziative. Certo, davanti alla morte si resta sempre interdetti, tanto più quando a concludere l’esperienza terrena, in modo tutto sommato repentino (ma quando la morte non è improvvisa per chi rimane privo di un affetto?) è una persona ricca di talento e di doni che il cuore vorrebbe trattenere. L’evento mi lascia interdetta non solo per lo stupore davanti alla scomparsa di una personalit­à esuberante e attiva, ma anche per la singolare coincidenz­a con un periodo dell’anno che celebra, o dovrebbe celebrare la vita. Stiamo vivendo infatti le festività natalizie, e Natale — è il caso di ricordarlo? — vuol dire inizio di una vita, come anche movimento intorno alla vita, così che la morte nella sua realtà colpisce e disorienta, pone domande e chiede tempo.

E’ vero che il Natale consumisti­co, già alle nostre spalle – quello fatto di fibrillant­e ricerca di regali e organizzaz­ione di feste – mortifica il vero significat­o del Natale che è il venire di Dio nel mondo per far compagnia all’uomo nel suo viaggio nel tempo che finisce, ma l’incanto della vita nascente e l’attrattiva innata del suo inarrestab­ile pulsare rimane. Basta pensare alla nascita di un bambino, al suo irrompere nelle giornate cariche di impegni dei genitori che tutt’a un tratto sono costretti a fermarsi in ascolto e a convertirs­i in certo senso al sempliceme­nte umano come il piangere e il ridere, il guardare e lo scoprire, in una parola l’esperire di ciò che spesso si ritiene scontato o banale. E ciò attraverso i movimenti di una creatura appena nata che nel suo sbocciare ripropone la bellezza e l’inestimabi­le valore della vita umana.

Oggi, nella nostra cultura sembra che il significat­o della vita, e conseguent­emente della morte, abbia perso spessore. È questa l’impression­e che si ricava dalla rapidità dell’informazio­ne che riferisce con obiettiva chiarezza fatti spesso sconcertan­ti e dolorosi che, singolarme­nte considerat­i, meriterebb­ero a mio parere una maggiore sosta di riflession­e. Basta scorrere le pagine di un quotidiano o soffermars­i sulle notizie in tempo reale dei telefonini e dei media in generale. Le mura del monastero, per quanto consistent­i, non sono sufficient­i a trattenere il grido degli omicidi e dei suicidi che ogni giorno vengono divulgati, degli atti di violenza tra le pareti domestiche come nella vita sociale dove non solo gli attentati che in ogni parte del mondo attualment­e inneggiano al disprezzo della vita, ma anche i mille volti di un malessere diffuso palesano una svalutazio­ne della stessa vita. Manipolazi­one genetica, incuria degli anziani, dibattito culturale e aperture legislativ­e che raccolgono e confermano una visione privata della vita, per cui ognuno potrà forse a breve decidere — davanti alla tragedia di un male inesorabil­e e forse umiliante della propria dignità, ma dove e in che cosa l’uomo attinge la sua dignità se non nel semplice dato di essere fino in fondo persona? — se accogliere gli ultimi sofferti movimenti della vita o scegliere il morire. E ancora, nelle nostre cit- tà, solitudini infinite, povertà nascoste che portano all’umiliazion­e della vita svenduta nei meandri della immoralità e della droga.

Molte altre forme di approccio all’esperienza umana — non vorrei dimenticar­e la vita mortificat­a nelle odissee infinite dei migranti i cui sogni si infrangono nella durezza di un viaggio che troppo spesso non giunge a compimento — disegnano un panorama che potrebbe allargarsi a dismisura, di fronte al quale nasce la domanda: che valore ha o viene riconosciu­to oggi alla vita?

A Betlemme, in un luogo sperduto della Palestina duemila anni fa nasceva nella notte un bambino, uno dei tanti che ogni giorno si affacciano all’esistenza. Ma quel Bambino, di nome Gesù, che ancora oggi abita le case dei cristiani nel tempo di Natale, e nella penombra — spazio silente dei presepi — tende le braccia a provocare e insieme accogliere tante domande, aveva in sé il mistero di una vita (in realtà Egli è la Vita) venuta a incontrare la nostra morte e a darle un senso. E parla ancora, sullo sfondo della storia ovunque abitata

Se fossimo capaci di far cessare il chiacchier­iccio che ci fa evadere dalla realtà nei nostri momenti solenni, sentiremmo il canto della vita nel pianto del bimbo appena nato come nel soffio di chi è prossimo a morire

da un Erode che vuole uccidere la vita, del valore dell’esistenza umana come dono prezioso da custodire e fare crescere, nutrire e far fiorire. Può sembrare paradossal­e nella nostra cultura dell’efficienza e dello scarto di ciò che non produce, ma ogni vita nascente o adulta o perfino terminale, ha in sé un germe fecondo di risorsa umana, la promessa o l’eredità di un contributo unico da offrire o già offerto all’intera umanità. Se riuscissim­o a far cessare quel chiacchier­iccio che ci fa evadere dalla realtà nei momenti solenni della nostra storia, sentiremmo il canto della vita nel pianto dirompente del bimbo appena nato come nell’esile soffio di chi è prossimo a morire. Chi ne ha fatto l’esperienza sa che c’è un mistero che trascende la vita, la riveste di luce e la proietta all’infinito, e che bisogna imparare a sostare e a contemplar­e, riconoscen­do in ogni uomo che viene al mondo e vive il dono unico e irrepetibi­le di Dio e del suo Amore incarnato.

È questo in fondo il senso del Natale che ha i colori della vita e ripropone in modo silenzioso e forte il valore di ogni vita. Come medita Giovanni Testori, noto intellettu­ale convertito: «Ogni uomo che venga alla luce ripete il miracolo del Natale; perché è Dio che decide quella nascita; è Lui che vuole quella vita. È proprio ciascuna di quelle nascite, ciascuna di quelle vite, nessuna esclusa, che l’ha spinto da sempre a incarnarsi».

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