IL SENSO DELLA VITA CHE SPIEGA INIZIO E FINE
Caro direttore, alcuni giorni fa una telefonata giunta all’improvviso mi ha comunicato l’aggravarsi delle condizioni di salute e, a breve distanza, la morte di una persona spiritualmente a me molto vicina.
Si tratta di un’amica cara, con cui in passato ho potuto condividere tanto cammino e realizzare insieme varie iniziative. Certo, davanti alla morte si resta sempre interdetti, tanto più quando a concludere l’esperienza terrena, in modo tutto sommato repentino (ma quando la morte non è improvvisa per chi rimane privo di un affetto?) è una persona ricca di talento e di doni che il cuore vorrebbe trattenere. L’evento mi lascia interdetta non solo per lo stupore davanti alla scomparsa di una personalità esuberante e attiva, ma anche per la singolare coincidenza con un periodo dell’anno che celebra, o dovrebbe celebrare la vita. Stiamo vivendo infatti le festività natalizie, e Natale — è il caso di ricordarlo? — vuol dire inizio di una vita, come anche movimento intorno alla vita, così che la morte nella sua realtà colpisce e disorienta, pone domande e chiede tempo.
E’ vero che il Natale consumistico, già alle nostre spalle – quello fatto di fibrillante ricerca di regali e organizzazione di feste – mortifica il vero significato del Natale che è il venire di Dio nel mondo per far compagnia all’uomo nel suo viaggio nel tempo che finisce, ma l’incanto della vita nascente e l’attrattiva innata del suo inarrestabile pulsare rimane. Basta pensare alla nascita di un bambino, al suo irrompere nelle giornate cariche di impegni dei genitori che tutt’a un tratto sono costretti a fermarsi in ascolto e a convertirsi in certo senso al semplicemente umano come il piangere e il ridere, il guardare e lo scoprire, in una parola l’esperire di ciò che spesso si ritiene scontato o banale. E ciò attraverso i movimenti di una creatura appena nata che nel suo sbocciare ripropone la bellezza e l’inestimabile valore della vita umana.
Oggi, nella nostra cultura sembra che il significato della vita, e conseguentemente della morte, abbia perso spessore. È questa l’impressione che si ricava dalla rapidità dell’informazione che riferisce con obiettiva chiarezza fatti spesso sconcertanti e dolorosi che, singolarmente considerati, meriterebbero a mio parere una maggiore sosta di riflessione. Basta scorrere le pagine di un quotidiano o soffermarsi sulle notizie in tempo reale dei telefonini e dei media in generale. Le mura del monastero, per quanto consistenti, non sono sufficienti a trattenere il grido degli omicidi e dei suicidi che ogni giorno vengono divulgati, degli atti di violenza tra le pareti domestiche come nella vita sociale dove non solo gli attentati che in ogni parte del mondo attualmente inneggiano al disprezzo della vita, ma anche i mille volti di un malessere diffuso palesano una svalutazione della stessa vita. Manipolazione genetica, incuria degli anziani, dibattito culturale e aperture legislative che raccolgono e confermano una visione privata della vita, per cui ognuno potrà forse a breve decidere — davanti alla tragedia di un male inesorabile e forse umiliante della propria dignità, ma dove e in che cosa l’uomo attinge la sua dignità se non nel semplice dato di essere fino in fondo persona? — se accogliere gli ultimi sofferti movimenti della vita o scegliere il morire. E ancora, nelle nostre cit- tà, solitudini infinite, povertà nascoste che portano all’umiliazione della vita svenduta nei meandri della immoralità e della droga.
Molte altre forme di approccio all’esperienza umana — non vorrei dimenticare la vita mortificata nelle odissee infinite dei migranti i cui sogni si infrangono nella durezza di un viaggio che troppo spesso non giunge a compimento — disegnano un panorama che potrebbe allargarsi a dismisura, di fronte al quale nasce la domanda: che valore ha o viene riconosciuto oggi alla vita?
A Betlemme, in un luogo sperduto della Palestina duemila anni fa nasceva nella notte un bambino, uno dei tanti che ogni giorno si affacciano all’esistenza. Ma quel Bambino, di nome Gesù, che ancora oggi abita le case dei cristiani nel tempo di Natale, e nella penombra — spazio silente dei presepi — tende le braccia a provocare e insieme accogliere tante domande, aveva in sé il mistero di una vita (in realtà Egli è la Vita) venuta a incontrare la nostra morte e a darle un senso. E parla ancora, sullo sfondo della storia ovunque abitata
Se fossimo capaci di far cessare il chiacchiericcio che ci fa evadere dalla realtà nei nostri momenti solenni, sentiremmo il canto della vita nel pianto del bimbo appena nato come nel soffio di chi è prossimo a morire
da un Erode che vuole uccidere la vita, del valore dell’esistenza umana come dono prezioso da custodire e fare crescere, nutrire e far fiorire. Può sembrare paradossale nella nostra cultura dell’efficienza e dello scarto di ciò che non produce, ma ogni vita nascente o adulta o perfino terminale, ha in sé un germe fecondo di risorsa umana, la promessa o l’eredità di un contributo unico da offrire o già offerto all’intera umanità. Se riuscissimo a far cessare quel chiacchiericcio che ci fa evadere dalla realtà nei momenti solenni della nostra storia, sentiremmo il canto della vita nel pianto dirompente del bimbo appena nato come nell’esile soffio di chi è prossimo a morire. Chi ne ha fatto l’esperienza sa che c’è un mistero che trascende la vita, la riveste di luce e la proietta all’infinito, e che bisogna imparare a sostare e a contemplare, riconoscendo in ogni uomo che viene al mondo e vive il dono unico e irrepetibile di Dio e del suo Amore incarnato.
È questo in fondo il senso del Natale che ha i colori della vita e ripropone in modo silenzioso e forte il valore di ogni vita. Come medita Giovanni Testori, noto intellettuale convertito: «Ogni uomo che venga alla luce ripete il miracolo del Natale; perché è Dio che decide quella nascita; è Lui che vuole quella vita. È proprio ciascuna di quelle nascite, ciascuna di quelle vite, nessuna esclusa, che l’ha spinto da sempre a incarnarsi».