De Falco, da eroe anti crisi a bandiera Cinque Stelle
Da simbolo del Paese che non si voleva arrendere a bandiera Cinque Stelle
Quando la Costa Concordia naufragò davanti all’Isola del Giglio, adagiandosi come un mostro alieno sulla scogliera della Gabbianara, l’Italia era sull’orlo del default. Il governo Monti si era insediato da poco e i ministriprofessori erano salutati come salvatori della Patria.
Dopo Ruby Nei giorni del naufragio della Concordia, le notti di Arcore erano alle spalle e gli italiani erano spaventati dal rischio default In divisa e con il loden Monti fu l’altro volto di quella stagione, ma in pochi mesi si perse nell’anonimato De Falco no, ha saputo gestire la sua fama
Era la sera del 13 gennaio 2012, un secolo fa, e gli italiani erano in cerca di un riscatto che li riabilitasse di fronte al mondo, che facesse dimenticare l’umiliazione della voragine del debito, dello spread stellare e di una reputazione internazionale prossima allo zero. Fu in questo clima che si consumò la tragedia della Concordia, che con 4229 persone a bordo e alla velocità di quasi 16 nodi, investì il Giglio. Il bilancio fu di 32 morti. E fu in questo clima che l’Italia rispolverò le categorie dell’antieroe e dell’eroe, rispettivamente personificate dal comandante della nave Francesco Schettino e da Gregorio De Falco, che nella notte del naufragio dirigeva la sala operativa della capitaneria di porto di Livorno. Quel «Salga a bordo, cazzo», pronunciato da De Falco all’indirizzo di Schettino, quando le lancette erano ferme alle 1,46 del 14 gennaio 2012 con un misto di marzialità e di rabbia, è rimasto impresso nel sentire collettivo degli italiani in giorni privi di campioni da celebrare e costretti a elevare il loden verde del professor Monti a simbolo di una nemesi dal sapore francescano, dopo le notti di Arcore.
Un’arma a doppio taglio per Gregorio De Falco, dottore in legge entrato nei ranghi delle capitanerie nel 1994, dopo aver vinto un concorso e 9 mesi di frequenza dell’Accademia Navale di Livorno; da un lato la personificazione della catarsi, dall’altro gli sguardi occhiuti dei suoi stessi commilitoni e delle alte sfere della Marina. Che forse non avesse fatto il suo dovere, in quella tremenda notte in cui i 900 gigliesi dovettero dare soccorso e conforto a oltre quattromila naufraghi? Certo che l’aveva fatto. Soprattutto perché all’inizio le notizie che trapelavano erano confuse e frammentarie: sembrava che su una nave con 1800 persone a bordo si fosse verificato un black-out, che fosse vicina a Livorno… anzi a Savona, che la situazione fosse sotto controllo. Poi, man mano che i minuti passavano, il blackout si trasformava in ciò che sarebbe stato: un naufragio causato da uno squarcio di 70 metri sulla fiancata di sinistra, quando le guglie delle Scole aprirono lo scafo come un coltello affondato nel burro. Ma quell’ordine, quel «Salga a bordo, cazzo», era realmente eseguibile? No, secondo molti non era eseguibile: all’1,46 la biscaglina di prua era sommersa e, anche volendo, Schettino non avrebbe potuto risalire a bordo per coordinare i soccorsi. Ed era corretto affermare di aver assunto il comando della nave, a 75 miglia di distanza, dal momento in cui ne era stato dichiarato l’abbandono? Sì, no, forse. Mai è stato chiarito del tutto, ma è evidente che nelle alte gerarchie il suo operato non fu unanimemente apprezzato. Fu così che, dopo poco più di due anni, l’allora capitano di fregata Gregorio De Falco fu trasferito in ufficio. Lui stesso, in un’intervista a Repubblica, disse di temere che il cambio di mansioni fosse legato al naufragio e alle vicende processuali: «Mi sono fatto l’idea che ci possa essere un collegamento con il lavoro di soccorso e le indagini». Visse il trasferimento come un’ingiustizia e fece ricorso al tribunale amministrativo. Lo perse, anche se gli italiani non persero il loro eroe nazionale, i più faticando anche a capire perché mai una persona capace di dimostrare che l’Italia non era quella ironizzata dai sorrisetti tra Merkel e Sarkozy, dovesse recedere dalla prima linea alla fureria. Gregorio De Falco non dirige più nessuna sala operativa. È stato assegnato al comando logistico della marina militare di Nisida, vicino a Napoli. Non si è fatto risucchiare dal circuito dei media, che solo di striscio riferirono di un abboccamento con Mario Monti per una candidatura nelle liste di «Scelta civica» alle politiche del 2013. Ma ora che si metterà in lizza per i Cinque Stelle, è come se avesse attraversato il Rubicone. «Parteciperà alle selezioni per la candidatura nella sua città — commenta Filippo Nogarin, sindaco di Livorno — Spero che sia tra i più votati: è una persona conosciuta e apprezzata. Di fatto sancisce l’apertura del Movimento alla società civile. Io lo sosterrò, come farò con qualsiasi altro candidato».
Se De Falco supererà le parlamentarie e sarà eletto, potrà sedere nella stessa aula di Mario Monti, nominato senatore a vita dall’ex presidente Giorgio Napolitano per altissimi meriti in campo scientifico e sociale. I due eroi di una stagione breve si troverebbero fianco a fianco. Con la differenza che nel giro di pochi mesi Mario Monti si è perso in un anonimato senza fine a conferma che, nella politica italiana, la popolarità è un bene facilmente deperibile. De Falco, invece, si è gestito con più facilità: è stato lontano dalla ribalta e, soprattutto da ogni tipo di governo, persino della sala operativa di una qualunque capitaneria di porto. Benché a basso voltaggio, in questi anni ha continuato a essere a suo modo un eroe nazionale, un personaggio popolare sebbene privo di esposizione mediatica. Forse il segreto sta qui. O forse sta nell’ evitare posizioni di comando. Chissà.