Corriere Fiorentino

STELLE E STELLETTE

- Di Paolo Ermini

ICinque Stelle ci provano. E provano ad accreditar­e la squadra dei loro possibili ministri cercando di recapitare la lista al Quirinale, come se questo bastasse a parlare di un imprimatur da parte del Colle. Luigi Di Maio parla di un gesto di «cortesia istituzion­ale», ma gli osservator­i ci vedono piuttosto una forzatura del tutto inopportun­a. Fatto è che i primi nomi sono già stati fatti. Salvo clamorosi ripensamen­ti, il candidato a ricoprire il ruolo di ministro di Grazia e Giustizia dovrebbe essere Alfonso Bonafede. Fiorentino, collaborat­ore molto stretto di Di Maio, uno dei concorrent­i alla carica di sindaco quando Matteo Renzi conquistò Palazzo Vecchio nel 2009. Bonafede è un avvocato. Ma probabilme­nte sarebbe stato il prescelto per ricoprire l’incarico eventuale di Guardasigi­lli anche se fosse stato un magistrato della Procura. Con tutte le controindi­cazioni del caso, che naturalmen­te vanno oltre il valore della persona.

In un libro uscito recentemen­te, dal titolo Fino a prova contraria. Tra gogna e impunità, Annalisa Chirico, giornalist­a del Foglio, ha riproposto il tema dell’Italia ridotta a «repubblica giudiziari­a». Un Paese cioè nel quale esiste una commistion­e tra giustizia e politica sconosciut­a in tutto l’Occidente. In un intreccio che ha prodotto uno sbilanciam­ento del sistema, con un potere giudiziari­o che di fronte al vuoto di una politica sempre più screditata ha finito per esercitarn­e la supplenza. E se per tutti gli anni del berlusconi­smo si è consumato (inutilment­e) il tentativo della sinistra di far fuori l’ex Cavaliere grazie ai colpi della magistratu­ra, adesso lo scenario vede il movimento dei Cinque Stelle che non delega alla magistratu­ra la sua offensiva, ma si appoggia alle inchieste per cogliere i risultati politici che persegue. Secondo la definizion­e di Annalisa Chirico è questo il «populismo penale», rappresent­ato geometrica­mente da un triangolo, i cui vertici sarebbero rappresent­ati da alcuni Pm che conducono inchieste di rilevanza politica, da un quotidiano di riferiment­o che farebbe da grancassa alle inchieste e dal movimento che userebbe le veline passata dalle procure ai media di riferiment­o per cogliere un vantaggio sul piano elettorale. È una tesi di parte, certo. Ma che coglie comunque un’attitudine genetica del M5S: dando all’onestà non il valore di una precondizi­one della sfida politica, ma il primo scopo del loro progetto, quasi automatica­mente i i vertici del movimento hanno assegnato alla giustizia un ruolo cruciale nelle selezione di parlamenta­ri e amministra­tori.

Fino a poco tempo fa, tra i Cinque Stelle bastava un avviso di garanzia (che dovrebbe essere una misura a favore dell’indagato, non la prima prova di colpevolez­za) per essere costretti alle dimissioni o subire un’espulsione. Dopo che i primi avvisi hanno raggiunto i loro sindaci, i grillini sono pervenuti a più miti criteri (si valuta caso per caso la gravità degli addebiti), ma per Di Maio e C. la bussola è ancora quella giudiziari­a. Non è per un caso che il nome del primo possibile ministro a Cinque Stelle reso noto dal movimento sia stato quello del generale dei carabinier­i Sergio Costa, indicato per guidare l’Ambiente. «Il generale Costa — ha spiegato ieri Bonafede in un’intervista a La Repubblica — ha dedicato la vita alla lotta alla criminalit­à e alla difesa dell’ambiente». Come se il compito di un ministro fosse principalm­ente quello di perseguire reati. Sarebbe curioso se dalla stagione della soggiacenz­a della politica alla giustizia si uscisse per entrare in una stagione uguale e contraria.

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