STELLE E STELLETTE
ICinque Stelle ci provano. E provano ad accreditare la squadra dei loro possibili ministri cercando di recapitare la lista al Quirinale, come se questo bastasse a parlare di un imprimatur da parte del Colle. Luigi Di Maio parla di un gesto di «cortesia istituzionale», ma gli osservatori ci vedono piuttosto una forzatura del tutto inopportuna. Fatto è che i primi nomi sono già stati fatti. Salvo clamorosi ripensamenti, il candidato a ricoprire il ruolo di ministro di Grazia e Giustizia dovrebbe essere Alfonso Bonafede. Fiorentino, collaboratore molto stretto di Di Maio, uno dei concorrenti alla carica di sindaco quando Matteo Renzi conquistò Palazzo Vecchio nel 2009. Bonafede è un avvocato. Ma probabilmente sarebbe stato il prescelto per ricoprire l’incarico eventuale di Guardasigilli anche se fosse stato un magistrato della Procura. Con tutte le controindicazioni del caso, che naturalmente vanno oltre il valore della persona.
In un libro uscito recentemente, dal titolo Fino a prova contraria. Tra gogna e impunità, Annalisa Chirico, giornalista del Foglio, ha riproposto il tema dell’Italia ridotta a «repubblica giudiziaria». Un Paese cioè nel quale esiste una commistione tra giustizia e politica sconosciuta in tutto l’Occidente. In un intreccio che ha prodotto uno sbilanciamento del sistema, con un potere giudiziario che di fronte al vuoto di una politica sempre più screditata ha finito per esercitarne la supplenza. E se per tutti gli anni del berlusconismo si è consumato (inutilmente) il tentativo della sinistra di far fuori l’ex Cavaliere grazie ai colpi della magistratura, adesso lo scenario vede il movimento dei Cinque Stelle che non delega alla magistratura la sua offensiva, ma si appoggia alle inchieste per cogliere i risultati politici che persegue. Secondo la definizione di Annalisa Chirico è questo il «populismo penale», rappresentato geometricamente da un triangolo, i cui vertici sarebbero rappresentati da alcuni Pm che conducono inchieste di rilevanza politica, da un quotidiano di riferimento che farebbe da grancassa alle inchieste e dal movimento che userebbe le veline passata dalle procure ai media di riferimento per cogliere un vantaggio sul piano elettorale. È una tesi di parte, certo. Ma che coglie comunque un’attitudine genetica del M5S: dando all’onestà non il valore di una precondizione della sfida politica, ma il primo scopo del loro progetto, quasi automaticamente i i vertici del movimento hanno assegnato alla giustizia un ruolo cruciale nelle selezione di parlamentari e amministratori.
Fino a poco tempo fa, tra i Cinque Stelle bastava un avviso di garanzia (che dovrebbe essere una misura a favore dell’indagato, non la prima prova di colpevolezza) per essere costretti alle dimissioni o subire un’espulsione. Dopo che i primi avvisi hanno raggiunto i loro sindaci, i grillini sono pervenuti a più miti criteri (si valuta caso per caso la gravità degli addebiti), ma per Di Maio e C. la bussola è ancora quella giudiziaria. Non è per un caso che il nome del primo possibile ministro a Cinque Stelle reso noto dal movimento sia stato quello del generale dei carabinieri Sergio Costa, indicato per guidare l’Ambiente. «Il generale Costa — ha spiegato ieri Bonafede in un’intervista a La Repubblica — ha dedicato la vita alla lotta alla criminalità e alla difesa dell’ambiente». Come se il compito di un ministro fosse principalmente quello di perseguire reati. Sarebbe curioso se dalla stagione della soggiacenza della politica alla giustizia si uscisse per entrare in una stagione uguale e contraria.