NOI E I NOSTRI FIGLI, CHE CI SONO SCAPPATI DI MANO
Rapidamente archiviata come una bravata da social di ragazzini annoiati, l’aggressione della baby gang di Serravalle Pistoiese a un anziano che arrancava a fatica con il suo bastone merita forse una riflessione più attenta. Le baby gang sono sempre esistite e il bullismo è una modalità violenta con i cui i ragazzi cercano di imporsi nella vita e soprattutto nella comunità dei loro amici. La gang spesso sostituisce la famiglia che non c’è. Niente di nuovo se non il fatto, come ha osservato Massimo Gramellini, che una volta i teppistelli inseguivano «la gloria dei coetanei» ma cercavano di scansare «la furia degli adulti», oggi invece girano video e li trasmettono sui social perché «sanno di restare impuniti». È una sfida, la loro, a genitori e educatori. Un po’ come quando i bambini fanno le bizze perché segretamente si aspettano dai genitori i no e i necessari paletti di contenimento che loro non sanno darsi.
L’impressione purtroppo è che fatichiamo a raccogliere la sfida dei nostri ragazzi. Corriamo il rischio di non saper affidare alla punizione un valore educativo. Lo si coglie anche dalle reazioni che in questi giorni si sono espresse sui social. Violente, rabbiose e spropositate. Riflesso di impotenza e frustrazione educativa. Come se i nostri figli ci siano sfuggiti di mano. C’è ad esempio chi invoca «botte da orbi». O l’applicazione dell’antica legge: «Occhio per occhio, dente per dente: così imparano». Chi addirittura l’olio di ricino. Chi «sculacciate nella pubblica piazza». Altri propongono lavori forzati sotto il sole d’estate e il gelo di inverno per dieci anni, magari da raddoppiare. E se provano a ribellarsi: «Calci nei denti». E via seguitando.
Il punto del contendere non è la punizione ma l’educazione. La domanda da porsi forse è un po’ questa: noi al posto dei genitori dei ragazzini di Serravalle Pistoiese come ci comporteremmo? È facile infatti invocare severità per i figli degli altri, un po’ meno per i nostri. Allora mettersi nei panni altrui è sicuramente un buon criterio educativo perché aiuta a comprendere la complessità e i disagi e le fatiche racchiuse nelle vite degli altri. Aiuta a capire ad esempio che ogni ragazzo è un’isola a se stante, dove è importante provare anche noi adulti ad abitarci.
Purtroppo oggi le grandi agenzie educative — famiglia, chiesa e scuola — sono in crisi. E il senso di colpa e di inadeguatezza educativa che ci portiamo dentro ci rende iperprotettivi verso i ragazzi. Che crescono al riparo delle fragilità della condizione umana per cui può succedere che un uomo con il bastone sia facile bersaglio del gioco di ragazzini senza dolore e senza età. La minorità fisica è oggetto di scherno. È l’irrisione biblica di Cam verso la nudità del padre Noè che si era ubriacato.
C’è stato un tempo in cui nelle famiglie patriarcali dell’Italia contadina i figli per mancanza di stanze vivevano in quelle dei nonni e imparavano a conoscerne la fragilità fisica e psicologica. I vecchi erano al centro della famiglia: si dava loro del voi in segno di rispetto. Nella società di oggi l’anziano non più produttivo è percepito come un peso. La misura della relazione umana è sempre meno affettiva e culturale, ma economica. La parola chiave non a caso è rottamare, tagliare, esuberi. Allora forse in quel bastone sottratto all’anziano di Serravalle non ci sono solo 5 ragazzini: c’è lo spirito, appunto, del nostro tempo.
Che fare? Non avere risposte è un primo criterio educativo. Non ci sono soluzioni: ci sono ragazzi. Ognuno con la sua storia, la sua vita, il suo mondo interiore. Provarci ad entrare dentro, in quelle isole ormai quasi affogate nell’oceano della Rete, non è la soluzione, ma forse è l’unica cosa che possiamo fare.