C’ERA UN RAGAZZO (3)
«Se perdo il referendum lascio la politica», aveva detto Matteo Renzi prima di quel 4 dicembre che bruciò la sua riforma costituzionale, e poi lasciò Palazzo Chigi ma restò alla guida del Pd. «Resto segretario fino al 2021 anche se perdo», aveva detto invece la scorsa settimana, a poche ore dalle elezioni.
Quelle elezioni che hanno decretato l’exploit dei Cinque Stelle, l’avanzata della Lega e la batosta del Pd. Ieri ha annunciato che si dimetterà da segretario al congresso del partito, però senza spiegare se dopo si ricandiderà o no. Forse stanno tutte in questi due passaggi controversi le ragioni della perdita di una leadership che appena quattro anni fa sembrava in grado di superare ogni ostacolo. È come se nei momenti più difficili della sua carriera l’ex premier non riuscisse più a trovare un orizzonte nitido, senza ambiguità, all’altezza delle due tradizioni — quella comunista e quella della sinistra cattolica — nelle quali il Pd affonda le sue radici. Eppure era stato proprio il discorso pronunciato nel 2012 dall’allora sindaco di Firenze, dopo la sconfitta subita nelle primarie contro Pier Luigi Bersani, a dargli l’aurea del vincente, del giovane politico che chiedeva sostegno per rottamare la vecchia classe dirigente e cambiare il Paese. Che al prossimo congresso dei Democratici Renzi si ripresenti o meno come possibile timoniere, ieri è finita una stagione. Intensa, ma breve. Anzi fulminea. Inspiegabilmente fulminea? Quando lui vinse le primarie per fare il sindaco di Firenze, scrivemmo: «Giorno dopo giorno, ha costruito il suo capolavoro politico, contro un partito intero. Ha giocato tutto e alla fine si è portato via il piatto» («C’era un ragazzo», sul Corriere Fiorentino del 16 febbraio 2009). Quando il 16 febbraio 2014 il Presidente Giorgio Napolitano gli affidò l’incarico di formare il governo prendendo il posto di Enrico Letta ci chiedemmo: «Il ragazzo adesso diventa premier, a 39 anni, il premier più giovane della storia italiana. Un altro capolavoro? Oppure la prova provata di un’incontenibile vocazione a macinare tempo e incarichi?» («C’era una ragazzo 2»). Renzi avrebbe avuto tempo e modo per mettere a freno la sua eccessiva esuberanza politica, avrebbe potuto valorizzare di più la competenza nella costruzione della squadra, avrebbe dovuto dimostrare più distacco verso le luci della ribalta. Il suo governo, durato mille giorni, ha realizzato riforme importanti, dal jobs act alle unioni civili, ma giorno dopo giorno Renzi è rimasto esposto a un fuoco di fila senza soste. Da destra e da sinistra. Con il giglio magico, il cerchio stretto dei suoi collaboratori, a far da calamita per gli attacchi più velenosi. Poteva esserci un epilogo diverso? La storia non si fa con i se, però… Annunciando la volontà di andare all’opposizione senza fare «inciuci» con chi domenica scorsa ha vinto, Renzi ha accusato gli avversari di aver affondato la sua riforma elettorale e la possibilità di avere una maggioranza autonoma capace di esprimere un governo. È un elemento di verità, ma Renzi si è concesso anche alcune autoassoluzioni. Soprattutto è passato sopra il suo peccato originale: avere accettato di sbarcare a Palazzo Chigi senza passare dal voto degli italiani. Un mandato popolare gli avrebbe consegnato un Parlamento renziano in grado di evitare accordi impopolari, a partire da quello con Verdini, per fare passare una legge o l’altra. Ora la politica si è ripresa il primato sulla fretta. Bruciando proprio l’uomo delle tappe forzate.
Ieri i termini scelti da Pape Diaw sono diventati un boomerang Un assist per gli estremisti che hanno avuto modo di puntare il dito «contro i senegalesi violenti»