Renzi annuncia le dimissioni Fine di un’epoca
«Non c’è nessuna fuga. Terminata la fase dell’insediamento del Parlamento e della formazione del governo, io farò un lavoro che mi affascina: il senatore semplice, il senatore di Firenze», sono le parole di Matteo Renzi. La fine di un’epoca per il leader del Pd.
«Io questa partita la voglio vincere». È l’estate del 2011, il termometro segna 38 gradi e Matteo Renzi sta perdendo malamente una partita di calcio a cinque organizzata in un campetto all’Erta Canina. Ma la partita non finisce, o per meglio dire finisce solo quando il risultato raggiunge il 34 a 32 (sì, gol, non percentuali) a favore della squadra dell’allora sindaco di Firenze. E quando due suoi compagni di squadra abbandonano il campo a causa della calura insostenibile, Renzi va negli spogliatoi e li obbliga a tornare a giocare al grido «questa partita la voglio vincere». Il leader del Pd non ha mai nascosto la sua allergia alle sconfitte, neanche — per dire — davanti al Comitato olimpico internazionale. «L’importante è partecipare, ma noi siamo qui per vincere», disse nel gennaio 2016 al presidente del Cio, raggiunto a Losanna per sostenere la candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024.
È vero che il barone Pierre de Coubertin molto probabilmente non avrebbe mai vinto le primarie del 2009 per diventare sindaco di Firenze. In quell’epoca politica, per sfidare i dirigenti dell’allora Partitone (molto meno «one» rispetto alla Prima Repubblica, ma molto più di ora che alla guida c’è proprio lui) ci voleva coraggio, cieca determinazione e tanta ambizione. «La candidatura di Renzi alle primarie sarebbe un errore politico. E invito Matteo a rifletterci serenamente», disse gelido Leonardo Domenici, allora sindaco di Firenze, dal palco dell’assemblea del Pd riunita al circolo Andreoni in quel settembre di dieci anni fa. Renzi, seduto in platea in camicia bianca (non ancora d’ordinanza), maniche arrotolate e braccia conserte, non la prese bene. Rimase in silenzio, col volto tirato. Ma due giorni dopo salì ugualmente sul palco del Palacongressi per annunciare la propria candidatura alle primarie per il sindaco, accompagnato dalla canzone «Io lo so che non sono solo» di Jovanotti. «Io non mi rifiuterò mai di tirare quel calcio di rigore», disse Renzi, insomma di provarci. E vinse, perché Firenze chiedeva una svolta che lui non solo prometteva ma incarnava, con quel ciuffo un po’ da chierichetto e un po’ scapestrato e lo slogan «Facce nuove a Palazzo Vecchio», mentre i due favoriti Lapo Pistelli e Michele Ventura duellavano alla maniera dei loro sponsor romani, Veltroni e D’Alema.
Ma se la vittoria può essere un’onda facile da cavalcare — cosa che Renzi una volta eletto sindaco fece, cercando costantemente il rilancio (per dire: la pedonalizzazione di piazza Duomo per andare oltre lo scontro sul passaggio della tramvia in centro) — la sconfitta è una bestia che ti può mangiare. A meno che tu non la domi, riuscendo a trasformare la delusione e la rabbia in energia.
2 dicembre 2012, Fortezza da Basso: Renzi è stato appena sconfitto alle primarie per diventare candidato premier del
centrosinistra da Pierluigi Bersani. «Non dite che ho vinto. Non volevamo fare una battaglia di testimonianza: eravamo qui per vincere e invece abbiamo perso», disse ai suoi sostenitori che si consolavano col 40% dei consensi. «La verità è che non sono riuscito a scrollarmi di dosso l’immagine da ragazzetto ambizioso che mi hanno cucito addosso, e non siamo riusciti a vivere serenamente le accuse personali che ci hanno lanciato contro». Un’autocritica spietata che mise in tutt’altra luce il «ragazzetto ambizioso», che in meno di due anni diventò prima segretario del Pd e poi premier (anche, certo, per i tanti demeriti dei suoi avversari). La stessa musica sembrò suonare la sera della vittoria del No al referendum costituzionale, quando alle tv del mondo disse: «Mi assumo tutte le responsabilità della sconfitta. Volevo ridurre il numero delle poltrone: la poltrona che salta è la mia».
Poi però lo spirito del 2012 non è tornato, chiuso fuori dalla porta blindata, con tanto di videocitofono, del suo ufficio al Nazareno dove anche ieri si è riunito con i suoi fedelissimi per decidere il da farsi. La categoria «renziani» ha iniziato a germogliare sotto-categorie non solo giornalistiche: renzianissimi, renziani critici, turbo-renziani, franceschinian-renziani... E l’abitudine a rilanciare si è trasformata in stentorea rivendicazione del passato, cioè delle cose fatte. «Con noi al governo il Pil è aumentato, l’export è migliorato, sono aumentati i posti di lavoro», ha ripetuto ieri Renzi, forse per la milionesima volta da quando ha lasciato Palazzo Chigi, prima di annunciare: «Lascio la guida del partito, serve una pagina nuova». Seconde dimissioni nel giro di un anno e mezzo, o forse no. Perché Renzi è deciso a restare in carica almeno fino alla nascita del nuovo governo. Poi nuovo congresso Pd. Per ricandidarsi e ricominciare tutto da capo? «Io lo so che non sono solo anche quando sono solo», canta Jovanotti, «ma l’unico pericolo che sento veramente è quello di non riuscire più a sentire niente».