RENZI E L’INSOSTENIBILE PESO DELLE PREMESSE
Dopo la cenciata di domenica scorsa — Pd al 18 per cento — il partito di Matteo Renzi è diventato l’ago della bilancia in Parlamento.
Ci si aspetta che il Pd compia chissà quali scelte di responsabilità. Una di queste sarebbe dare i suoi voti al M5S per consentire la nascita del governo Di Maio. Da sinistra arrivano gli appelli, come quello di Massimo Cacciari, che dice a HuffPost: «Credo che l’unica cosa ragionevole per il Pd in questo momento è di dare il via libera a un governo monocolore del Movimento 5 Stelle. Senza entrare a far parte dell’esecutivo, ma riconoscendo che i Cinque Stelle sono i vincitori di queste elezioni e che il Pd ha perso».
Sarà così per giorni. Uno stillicidio quotidiano (presto in arrivo anche un appello su Repubblica firmato dai migliori intellò della Penisola?). Anche Pif, dalla Leopolda con furore, dice che il Pd deve allearsi con i Cinque Stelle. L’aspetto surreale è che, in accompagnamento a questi appelli, si spaccia il M5S per un partito più vicino alla sinistra come orizzonte politico-culturale di riferimento. Per questo una parte del Pd e qualche giornale auspicano questa soluzione, dimenticando però gli insulti volati da entrambe le parti in campagna elettorale.
Ora, è vero che in campagna elettorale si usano toni che poi vengono scordati e tutti sembrano riserve della Repubblica, ma qui il problema è l’incompatibilità di fondo. Lasciamo stare le visioni del mondo tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa. Pensiamo al fatto che il Pd dovrebbe dare il sostegno a misure come il reddito di cittadinanza, cui il M5S difficilmente potrebbe rinunciare dopo la caterva di voti presi. Per questo,
Cronaca, cronaca politica. Dai palazzi romani, ma anche dalle piazze
(e da qualche retrobottega) di tutta Italia. Per capire che cosa ci è successo nell’ultima settimana. E cosa c’è da aspettarsi da quella successiva Twitter @davidallegranti
almeno nella fase attuale, sembra impossibile che gli appelli sortiscano qualche effetto. Domani, intanto, la Direzione del Pd dovrà fornire qualche orientamento. Sul futuro del Pd, la sua leadership e su come comportarsi con le alleanze.
Matteo Renzi, principale sconfitto di questa tornata elettorale, dice che il Pd deve stare all’opposizione ed è pronto a contarsi nei gruppi parlamentari. Sulla carta al Senato può fare affidamento su 34 senatori renziani. Viene però da chiedersi quanti di loro saranno fedeli alla linea appena l’incendio della casa del Nazareno sarà spento. È lecito aspettarsi che circa 12 di questi senatori possano non essere così propensi a seguire Renzi nella sua guerriglia parlamentare. Anche perché non è chiaro quali siano le intenzioni definitive del segretario dimissionario del Pd. Il quale peraltro non ha neanche offerto uno straccio di analisi del voto. Si è limitato ad accusare il governo di non aver fatto abbastanza campagna elettorale per il Pd (con riferimento a Paolo Gentiloni e al «partito dei ministri», uscito peraltro sconfitto sonoramente dalle urne) e poco altro. Sicuramente insufficiente come spiegazione. Eppure molto ci sarebbe e c’è da dire. Renzi nasce come risposta iperpolitica a un’ansia di cambiamento, si propone come traghettatore verso la Terza Repubblica, nel tentativo di superare la guerra di religione fra berlusconiani e antiberlusconiani (ne ha però introdotta un’altra, quella fra renziani e antirenziani). Le prime Leopolde nascono con la battaglia interna del limite dei due mandati, con la famosa «rottamazione», con l’ansia generazionale di rovesciare una classe dirigente. E la rottamazione che cos’altro era se non «tutti a casa», un atto di accusa contro un gruppo politico considerato fallimentare? Le premesse erano enormi. Renzi si era fatto portavoce di una generazione politicamente senza voce. La velocissima ascesa nel Palazzo, dalla provincia fiorentina — chiave di lettura di molti degli aspetti anche controversi del renzismo — nel cuore del «sistema», non è stata accompagnata da un altrettanto veloce consolidamento degli strumenti per mantenere fede alle premesse. Renzi ha contraddetto se stesso, spesso pensando che l’Italia fosse una ridotta della provincia fiorentina e privilegiando in diversi ma decisivi casi un obbligo di fedeltà stridente con quello spirito guascone con cui aveva iniziato l’assalto al cielo nel 2010. Per mesi gli abbiamo sentito ripetere analisi sull’Italia che odia sui social (lo ha detto anche al Nazareno dopo la sconfitta), come se il problema dell’Italia fossero quattro orribili meme. Le prime analisi dei flussi di voto dicono che i Cinque Stelle sono attrattivi nei confronti degli elettori di centrosinistra.
Per i primi tempi, Renzi è stato abile nell’accogliere trasversalmente un elettorato. Questa capacità si è affievolita al punto tale che oggi le prospettive macroniane di cui si torna a parlare («e allora noi ci facciamo il nostro partito!») sono schiacciate dal fatto che quella finestra adesso si è chiusa. Poteva funzionare nel 2012, dopo la sconfitta alle primarie del Pd contro Bersani. In quel momento, Renzi aveva a disposizione un patrimonio politico e sociale consistente. Ha scelto di restare nel Pd, diventandone il capo. Ne è diventato il capo non perché volesse davvero fare il segretario del Pd, ma perché era la via più veloce per salire a Palazzo Chigi, disarcionando Enrico Letta. Da segretario di partito, si è disinteressato di alcune zone strategiche, come il Mezzogiorno, pensando che bastassero i micronotabili come Vincenzo De Luca o Michele Emiliano per l’ordinaria gestione di un partito. Non stupisce che il Mezzogiorno sia la parte del paese in cui i Cinque Stelle dilagano. Resta il fortino toscano, chissà per quanto ancora. Il disagio sociale nel frattempo è cresciuto, la crescita economica non è stata sufficiente a contenerla. Aver dipinto gli avversari, interni ed esterni, come «gufi» e «rosiconi», non ha aiutato, anzi.