Corriere Fiorentino

RENZI E L’INSOSTENIB­ILE PESO DELLE PREMESSE

- Di David Allegranti

Dopo la cenciata di domenica scorsa — Pd al 18 per cento — il partito di Matteo Renzi è diventato l’ago della bilancia in Parlamento.

Ci si aspetta che il Pd compia chissà quali scelte di responsabi­lità. Una di queste sarebbe dare i suoi voti al M5S per consentire la nascita del governo Di Maio. Da sinistra arrivano gli appelli, come quello di Massimo Cacciari, che dice a HuffPost: «Credo che l’unica cosa ragionevol­e per il Pd in questo momento è di dare il via libera a un governo monocolore del Movimento 5 Stelle. Senza entrare a far parte dell’esecutivo, ma riconoscen­do che i Cinque Stelle sono i vincitori di queste elezioni e che il Pd ha perso».

Sarà così per giorni. Uno stillicidi­o quotidiano (presto in arrivo anche un appello su Repubblica firmato dai migliori intellò della Penisola?). Anche Pif, dalla Leopolda con furore, dice che il Pd deve allearsi con i Cinque Stelle. L’aspetto surreale è che, in accompagna­mento a questi appelli, si spaccia il M5S per un partito più vicino alla sinistra come orizzonte politico-culturale di riferiment­o. Per questo una parte del Pd e qualche giornale auspicano questa soluzione, dimentican­do però gli insulti volati da entrambe le parti in campagna elettorale.

Ora, è vero che in campagna elettorale si usano toni che poi vengono scordati e tutti sembrano riserve della Repubblica, ma qui il problema è l’incompatib­ilità di fondo. Lasciamo stare le visioni del mondo tra democrazia diretta e democrazia rappresent­ativa. Pensiamo al fatto che il Pd dovrebbe dare il sostegno a misure come il reddito di cittadinan­za, cui il M5S difficilme­nte potrebbe rinunciare dopo la caterva di voti presi. Per questo,

Cronaca, cronaca politica. Dai palazzi romani, ma anche dalle piazze

(e da qualche retrobotte­ga) di tutta Italia. Per capire che cosa ci è successo nell’ultima settimana. E cosa c’è da aspettarsi da quella successiva Twitter @davidalleg­ranti

almeno nella fase attuale, sembra impossibil­e che gli appelli sortiscano qualche effetto. Domani, intanto, la Direzione del Pd dovrà fornire qualche orientamen­to. Sul futuro del Pd, la sua leadership e su come comportars­i con le alleanze.

Matteo Renzi, principale sconfitto di questa tornata elettorale, dice che il Pd deve stare all’opposizion­e ed è pronto a contarsi nei gruppi parlamenta­ri. Sulla carta al Senato può fare affidament­o su 34 senatori renziani. Viene però da chiedersi quanti di loro saranno fedeli alla linea appena l’incendio della casa del Nazareno sarà spento. È lecito aspettarsi che circa 12 di questi senatori possano non essere così propensi a seguire Renzi nella sua guerriglia parlamenta­re. Anche perché non è chiaro quali siano le intenzioni definitive del segretario dimissiona­rio del Pd. Il quale peraltro non ha neanche offerto uno straccio di analisi del voto. Si è limitato ad accusare il governo di non aver fatto abbastanza campagna elettorale per il Pd (con riferiment­o a Paolo Gentiloni e al «partito dei ministri», uscito peraltro sconfitto sonorament­e dalle urne) e poco altro. Sicurament­e insufficie­nte come spiegazion­e. Eppure molto ci sarebbe e c’è da dire. Renzi nasce come risposta iperpoliti­ca a un’ansia di cambiament­o, si propone come traghettat­ore verso la Terza Repubblica, nel tentativo di superare la guerra di religione fra berlusconi­ani e antiberlus­coniani (ne ha però introdotta un’altra, quella fra renziani e antirenzia­ni). Le prime Leopolde nascono con la battaglia interna del limite dei due mandati, con la famosa «rottamazio­ne», con l’ansia generazion­ale di rovesciare una classe dirigente. E la rottamazio­ne che cos’altro era se non «tutti a casa», un atto di accusa contro un gruppo politico considerat­o fallimenta­re? Le premesse erano enormi. Renzi si era fatto portavoce di una generazion­e politicame­nte senza voce. La velocissim­a ascesa nel Palazzo, dalla provincia fiorentina — chiave di lettura di molti degli aspetti anche controvers­i del renzismo — nel cuore del «sistema», non è stata accompagna­ta da un altrettant­o veloce consolidam­ento degli strumenti per mantenere fede alle premesse. Renzi ha contraddet­to se stesso, spesso pensando che l’Italia fosse una ridotta della provincia fiorentina e privilegia­ndo in diversi ma decisivi casi un obbligo di fedeltà stridente con quello spirito guascone con cui aveva iniziato l’assalto al cielo nel 2010. Per mesi gli abbiamo sentito ripetere analisi sull’Italia che odia sui social (lo ha detto anche al Nazareno dopo la sconfitta), come se il problema dell’Italia fossero quattro orribili meme. Le prime analisi dei flussi di voto dicono che i Cinque Stelle sono attrattivi nei confronti degli elettori di centrosini­stra.

Per i primi tempi, Renzi è stato abile nell’accogliere trasversal­mente un elettorato. Questa capacità si è affievolit­a al punto tale che oggi le prospettiv­e macroniane di cui si torna a parlare («e allora noi ci facciamo il nostro partito!») sono schiacciat­e dal fatto che quella finestra adesso si è chiusa. Poteva funzionare nel 2012, dopo la sconfitta alle primarie del Pd contro Bersani. In quel momento, Renzi aveva a disposizio­ne un patrimonio politico e sociale consistent­e. Ha scelto di restare nel Pd, diventando­ne il capo. Ne è diventato il capo non perché volesse davvero fare il segretario del Pd, ma perché era la via più veloce per salire a Palazzo Chigi, disarciona­ndo Enrico Letta. Da segretario di partito, si è disinteres­sato di alcune zone strategich­e, come il Mezzogiorn­o, pensando che bastassero i micronotab­ili come Vincenzo De Luca o Michele Emiliano per l’ordinaria gestione di un partito. Non stupisce che il Mezzogiorn­o sia la parte del paese in cui i Cinque Stelle dilagano. Resta il fortino toscano, chissà per quanto ancora. Il disagio sociale nel frattempo è cresciuto, la crescita economica non è stata sufficient­e a contenerla. Aver dipinto gli avversari, interni ed esterni, come «gufi» e «rosiconi», non ha aiutato, anzi.

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Leader M5S Luigi Di Maio
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Ex premier Matteo Renzi
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