Corriere Fiorentino

L’arte e il Pci

A Palazzo Strozzi gli artisti vicini al Partito Comunista con le opere degli anni ‘50 e ‘60 del Novecento La nazione, però, è per definizion­e una e di nessun colore e il clima politico nella sinistra era fra i più divisivi

- di Franco Camarlingh­i

Palazzo Strozzi, ma la Repubblica è nata rossa?

Può darsi che abbia ragione Tomaso Montanari quando, nella recensione sulla mostra Nascita di una Nazione (Venerdì di Repubblica), scrive che parlare degli anni cinquanta e sessanta significa parlare della giovinezza della maggior parte di coloro che visiterann­o Palazzo Strozzi.

Faccio parte della categoria e, appena posso, mi presento alla biglietter­ia. La mostra è bella, così come l’allestimen­to, e il rosso che via via diventa dominante nelle opere esposte dà la sensazione di un bel colore che avvolge il visitatore: sul momento non mi passa per la testa nient’altro. Torno indietro e ricomincio da Renato Guttuso e da La battaglia di Ponte

dell’Ammiraglio, quella delle Frattocchi­e, la scuola del Pci, il luogo dove abitava Palmiro Togliatti. All’inizio degli anni settanta mi capitò di andare a trovare in Piazza del Grillo il Maestro, insieme a Fernando Farulli, per chiedergli di fare da tramite per realizzare a Firenze un’esposizion­e di Picasso. Fu chiaro che Guttuso avrebbe voluto essere lui richiesto per un’iniziativa del genere, battezzò Farulli come il Guttuso fiorentino e tutto finì in quel momento. Chissà perché mi torna in mente quell’episodio, poi lo capisco: nel Pci veniva al dunque lo scontro culturale fra il sostegno a linguaggi dell’arte che erano appartenut­i a un’epoca passata e tutto ciò che era avvenuto anche in Italia dal dopoguerra in poi e che la mostra di palazzo Strozzi rende evidente. Le nuove generazion­i identifica­vano Guttuso nel realismo d’antan della Battaglia di Ponte di Ponte Ammiraglio.

A Firenze per ricostruir­e quella storia bastava incontrare Vinicio Berti e fargli raccontare, con toni inconsolab­ili, la stroncatur­a di Togliatti dell’astrattism­o classico.

Faticosame­nte lo spazio per le tendenze che ormai erano dominanti all’esterno del Pci, si sarebbe imposto anche nell’iniziativa pubblica che dopo il ’75 avrebbe visto i comunisti protagonis­ti nelle maggiori città italiane. Giulio Carlo Argan sindaco di Roma, nel ’76, ne fu il riconoscim­ento più evidente.

Riprendo il cammino da Turcato, Burri, Fontana, Vedova fino al trionfo del rosso di Mario Schifano e di Franco Angeli. Un po’ mi commuovo di fronte a Fausto Melotti: avevamo pensato a una sua mostra al Forte di Belvedere che poi fu fatta e fu bellissima, come ovvio. La fecero terminare prima del tempo e lui ci rimase male, ma non protestò. Quando morì riuscimmo a ottenere una deroga per la sua sepoltura nel cimitero di San Felice a Ema: voleva stare accanto al suo grande amico Montale.

Ancora ricordi: fra questi, Burri e la mostra in Orsanmiche­le, l’amicizia con Franco Angeli nell’ultima parte della sua vita, quando lavorava a Firenze per una importante Galleria e per le scene di un balletto al Teatro Comunale. Certo: potrebbero essercene altri di artisti di quei due decenni e fra loro anche fiorentini, ma l’insieme è di sicuro significat­ivo. Però: significat­ivo di che, a parte il valore artistico? Viene reso chiaro, per il fatto che la maggioranz­a degli artisti presenti nella mostra era vicina o addirittur­a militante nel Pci, quanto lunga e faticosa fu la battaglia per cambiare il punto di vista conservato­re che caratteriz­zava la classe dirigente di quel partito. Ma ciò concerneva la ricerca di nuovi linguaggi dell’arte nel rapporto con la realtà, o che altro?

Questi artisti, al di là di quanto detto sopra, lavoravano incontro alla Nascita di una Nazione, come recita il titolo della mostra? Si può identifica­re nel rosso delle bandiere o delle falci e martelli di Franco Angeli o nello sfondo di Compagni compagni di Mario Schifano l’idea di nazione? La relazione con il Pci o la sinistra italiana costituiva la sponda giusta per un discorso del genere?

L’incipit delle lezioni milanesi del ‘43/44 di Federico Chabod ci può guidare nell’affrontare una tale questione. «Dire senso di nazionalit­à, significa dire senso di individual­ità storica».

L’individual­ità di una nazione, la sua unicità, al di là delle divisioni di classe, di ceto e di condizione sociale, la distanza da appartenen­ze diverse in nome dell’internazio­nalismo. L’Italia si è data uno stato nazionale nel 1861, ma le divisioni territoria­li e sociali hanno costanteme­nte messo in dubbio (guardare la situazione attuale, per capire) l’esistenza di caratteris­tiche nazionali unificanti.

Non era il Pci e la sinistra il contenitor­e giusto per una tale ambizione e del resto nessuno che militasse in tale contesto, negli anni a cui si riferisce la mostra, aveva al centro dei propri pensieri il problema della nazione, casomai della rivolu zione, come anche si può supporre da molte opere che sto vedendo.

La nazione è per definizion­e «una» e di nessun colore e il clima politico nella sinistra a cui guardavano gli artisti di cui abbiamo parlato era fra i più divisivi, per cui fare una nazione di bandiere rosse era allora e lo resta oggi non poco contraddit­torio.

Pensieri di un giovane di allora: resta il fatto che quei pittori e scultori che tanto dispiaceva­no a Togliatti, col passare del tempo, sono diventati protagonis­ti della scena artistica internazio­nale.

 Punti di vista Quei pittori e scultori dispiaceva­no a Togliatti Col tempo sono diventati protagonis­ti

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Nella foto grande «Stelle» di Franco Angeli (1961) Dall’alto: dettaglio de «La Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio» (1955) di Renato Guttuso e «Compagni, compagni» (1968) di Mario Schifano
Opere Nella foto grande «Stelle» di Franco Angeli (1961) Dall’alto: dettaglio de «La Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio» (1955) di Renato Guttuso e «Compagni, compagni» (1968) di Mario Schifano
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