L’ ALBERTI E LA NOSTALGIA PER LA CITTÀ MAI VISTA
Per il Corriere Fiorentino sto scrivendo una serie di racconti tratti dalle Vite del Vasari. Ogni vita indaga uno stato d’animo o uno stato di grazia. Si tratta di vite passate ma sentimenti presenti, quasi che i singoli esseri umani fossero solo dei portatori che permettono ai sentimenti di vivere e riprodursi. Vi leggo alcuni brani dalla vita di Leon Battista Alberti, che essendo cresciuto in esilio provava nostalgia — questo il sentimento centrale — per un posto che non aveva mai visto. Tempo fa mi è capitato di leggere alcune poesie scritte da figli di emigranti. I genitori erano partiti da Ustica nella seconda metà dell’Ottocento e loro, i figli ormai stranieri, per lo più americani, descrivevano le baie, le onde, o le piante dell’isola senza averle mai viste, basandosi solo sulle parole delle persone care. Per Leon Battista Alberti giovane ho immaginato una situazione analoga.
Fu umanista, pittore e architetto. Ma prima nacque. Nel 1404, da una importante famiglia esiliata a Genova. Fin da piccolo sentì parlare della città perduta, e imparò a dire Firenze prima di mamma. La nostalgia di qualcosa che non abbiamo mai visto ma avremmo dovuto vedere, qualcosa che abbiamo nel sangue, può distruggerci o formarci. Crescendo Battista (il nome Leon lo aggiunse da grande, per darsi forza con una parola) assorbì i discorsi su Firenze che facevano i suoi famigliari. Seppe dalle loro parole com’era melodioso il suono dell’acqua in una certa fontana, o come cadeva la luce nella sera estiva sulla facciata di una chiesa. Poi c’erano le descrizioni dei viaggiatori, che raccontavano il nuovo fermento della città. Le opere in costruzione: la cupola del Duomo, per esempio. Le porte del Battistero. I dipinti inauditi. C’era il timore che le novità deturpassero Firenze, ma anche una grande speranza. Lui seguiva questo rigoglio da lontano, con rabbia e amore. Gli sembrava di guidarlo con la mente. Le descrizioni prendevano vita in lui con una forza che lo stordiva. Durante il lungo esilio «in quale siamo noi Alberti invecchiati», sentendosi respinto studiò moltissime cose, quasi tutte. Figlio illegittimo, cadde in difficoltà economiche. Ma era mosso da una bramosia mentale: doveva esistere un ordine segreto che gli avrebbe consentito di tornare nella città perduta. Uomo dai mille lati, andò alla ricerca di un centro (...).
L’esilio fu revocato nel 1428. Finalmente lui e Firenze si guardarono. Ascoltò il rumore della fontana, osservò la luce sulla facciata della chiesa e fu accecato dalle novità in costruzione. Quelli erano i suoi ricordi, quelli erano i suoi sogni. Tutto era vero. L’aveva già visto (...).
Ogni tanto commise degli errori, per un eccesso di filosofia. Questo non può che incoraggiarci, visto che anche noi ne facciamo (...).
Fu insuperabile nel lanciare dardi, danzare, correre sui monti, perforare corazze. Questo almeno si legge nella Vita dell’Alberti, che forse scrisse lui stesso. Modificò la città dei suoi sogni restando sveglio. Quando gli parve di aver fatto abbastanza passò a miglior vita, contento e tranquillo.