Corriere Fiorentino

BISOGNA PERDERSI PER FARE I CONTI COL PASSATO

- di Vanni Santoni

Stai ancora a Firenze, ti chiedono, come se uno dovesse per forza volersene andare. E poi, Scrivine! Come a dire, ti ostini a starci, almeno raccontala. È pur vero che per chi ci vive è sempre un po’ una sorpresa che Firenze continui ad attirar gente, che alcuni poi ci rimangano pure. Non solo, quindi, quelli che ogni giorno vengono scaricati sul Lungarno della Zecca Vecchia. A volte arriva qualcuno a dire che Firenze dovrebbe liberarsi dell’ingombro del passato, smettere di vivere alle spalle dei forestieri, e tornare a essere culla d’ingegni. Intanto, continua come negli ultimi quattro secoli, e infatti più che l’arrivo del turista ci sorprende quello delle frotte di aspiranti artisti, scrittori, architetti che la eleggono a propria destinazio­ne, aspirando a cavarne un’educazione, se non un’elevazione, spirituale. Scelta curiosa: perché tutto ciò che Firenze offre, in ultima istanza, è se stessa, e il succo non è immediato da afferrare. Perché i capolavori non si riproducon­o e non si raccontano, un Ponte Vecchio o una San Miniato non sono rappresent­abili senza finire nell’oleografia (...).

Anche fare il flâneur è cosa ardua: bisogna approcciar­e la città nei momenti più inusuali, ritrovarsi a girarla alla sera in pieno agosto oppure alle cinque del mattino. Solo così si prenderà confidenza con luoghi come il fiume di tenebra di Borgo Pinti e quello sinuoso di via Romana, l’asciutta San Gallo o la ripida Costa San Giorgio, che reca a un’altra e diversa città, la quale è tuttavia più Firenze della prima. Solo quando la città è deserta o riposa, ecco allora riemergere un sistema di segni.

Chi vuole davvero provare a credere in Firenze, capisce poi che deve attraversa­re l’Arno: Firenze è una città dall’anima occulta, e Santo Spirito, più nascosta e umbratile, meno trafficata e affollata, è la più occulta delle due sue parti. Una sera, ospite a una cena al piano più alto di uno dei palazzi di via Maggio, altro fiume oscuro, buia anche di giorno, uscii sul tetto e guardai fuori. Mi aspettavo il solito panorama, quello tanto bello da abbagliare o stuccare, con la sola differenza di una prospettiv­a più centrale. Vidi invece altro. Realizzai che quasi ogni isolato della città custodiva al suo interno un giardino. Ve ne erano di piccoli e di enormi; il palazzo stesso in cui eravamo ne nascondeva, insospetta­bile da fuori, uno considerev­ole, con pini, palme e finanche un piccolo parco giochi.

Oppure no. Oppure bisogna uscire dal centro, trovare nuovi snodi e nuove funzioni intorno a segnacoli esterni come il Cimitero degli Inglesi, il parco di San Salvi, il Ponte alle Riffe o addirittur­a il Viadotto dell’Indiano. O andare ancora oltre, prendere il primo «30» e lasciarsi portare nella piana, superare Novoli, Peretola, Sesto Fiorentino (...). Cosa troveremmo però, se non una periferia postindust­riale uguale alle altre, anzi meno grandiosa? Il senso qui da noi si è coagulato altrove, ed è con quel centro, con quella pietrafort­e, con quei marmi, che tocca fare i conti.

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Vanni Santoni ha letto un suo testo dedicato a Firenze, una città da riscoprire nei momenti più inusuali

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