Il paradosso della scala della morte Chiusa perché non è a norma
Per la prima volta in cinquant’anni di pellegrinaggi della memoria, centinaia di studenti toscani non avranno accesso alla «scala della morte» del campo di Mauthausen. Il ministro degli Interni austriaco, Herbert Kickl, si è infatti risentito per non essere stato invitato alle annuali celebrazioni che ricordano la liberazione del campo. L’ultimo in ordine di tempo ad essere liberato. Qui si anima una straordinaria manifestazione internazionale la domenica più vicina al giorno della liberazione, il 5 maggio. Kickl è del partito «post-nazista» FpÖ e quando — dal Comitato internazionale di Mauthausen, che organizza il cerimoniale — hanno fatto sapere che l’unico invito ufficiale viene storicamente inviato solo a Presidente della Repubblica, ha usato la sua autorità. Come ministro degli Interni ha inviato degli ispettori nel campo di sterminio. E gli ispettori, alla fine della loro visita, da buoni, perfetti burocrati, hanno decretato che la «scala della morte» non è a norma. Il più perfido e sadico degli umoristi antisemiti non avrebbe mai avuto una fantasia del genere.
Gli studenti toscani partiranno in ogni caso con l’Aned, l’Associazione degli ex deportati, giovedì 3 maggio, per transitare da Dachau, Ebensee, Gusen, Hartheim, ed infine prendere parte alla manifestazione di domenica 6 maggio che ricorda la liberazione di Mauthausen. Non parteciperanno però a quel rituale che ha sconvolto generazioni di studenti: scendere e poi risalire in silenzio la «scala della morte» del campo di sterminio di Mauthausen. Arrivare in cima senza fiato, con i piedi protetti da scarpe di ultima generazione comunque doloranti, lo sguardo perso nel vuoto a riflettere «su ciò che è stato». Le scale dell’unico «campo di concentramento classificato di “classe 3” (come campo di punizione e di annientamento attraverso il lavoro)», dove vi si attuò lo sterminio soprattutto attraverso il lavoro forzato nella vicina cava di granito.
Le camere a gas qui erano poche e piccole, servivano a poco, bastava il lavoro in cava e la scala, ripida, fatta male, interminabile. Dove le SS si divertivano a tirare giù verso il dirupo file intere di persone. Quello spaventoso abisso veniva chiamato sarcasticamente il «muro dei paracadutisti». Dove cascavano, se un deportato con gli zoccoli consunti anche nel pieno inverno scivolava sulla pietra irregolare, bagnata, ghiacciata e si tirava dietro tutti i compagni della sua fila. Morivano così a decine di migliaia. Ma in questi cinquant’anni di pellegrinaggi non si è mai fatto male nessuno.