Nel deserto di Vallombrosa
Alberi a rischio, foresta off limits. I locali storici chiusi. «Non offriamo più nulla»
Sotto la grande abbazia, la peschiera dove dal 1742 vengono allevati i pesci è coperta da uno strato verde limaccioso. I pesci boccheggiano in superficie, altri sono a pancia in su, anche qualche rospo galleggia immobile. Tra Vallombrosa e il Saltino è un continuo di porte chiuse, cancelli col lucchetto, vetrate oscurate dai teli. E all’ingresso del «pratone», un cartello che ammonisce i visitatori a non addentrarsi nella foresta: «È molto alto il pericolo di caduta piante. S’invitano pertanto tutti i visitatori ad evitare di addentrarsi all’interno della foresta e a rimanere nell’ambito delle strade asfaltate». Non è un divieto formale, ma all’ingresso dei sentieri di Vallombrosa ci sono catene, cartelli di divieto d’accesso. E non sono per fermare le auto, sono stradine impercorribili, nessuno si sognerebbe di imboccarle in macchina. Tutt’intorno, è una distesa di rami caduti per le intemperie, di arbusti che velocemente invadono una foresta che fino a pochi anni fa era così pulito da sembrare irreale. Vallombrosa è malata. È malata perché alberghi e ristoranti faticano ad andare avanti, perché nella grande abbazia benedettina restano soltanto sei monaci, perché gli ex forestali diventati carabinieri sembrano molti meno di prima. Lo specchio è proprio la foresta, con rami e tronchi tagliati ormai sovrastati da quelli che sono caduti per conto proprio. Anche la stazione sperimentale di selvicoltura è chiusa, nessuno risponde al campanello e alla porta non c’è neppure un orario. Mentre, di fronte, lo striscione al Museo di arte sacra spiega che si apre solo a luglio e agosto. E nel giardino di San Benedetto, una piccola nicchia dedicata al ritiro spirituale, è una distesa di rame e foglie a terra.«Qui in abbazia per otto mesi all’anno si patisce un freddo tremendo, il riscaldamento c’è e fa poco», racconta un giovane monaco. A Vallombrosa otto mesi all’anno si aspetta solo l’estate. Gli alberghi aprono da giugno a metà settembre, la foresteria dell’abbazia solo a luglio e agosto. «Per forza — racconta un residente — Se uno deve pagare le tasse, la nettezza, per tutto l’anno, quando invece lavora solo dal primo giugno...». «Il primo giugno riaprono? — scherza un altro — Di che anno?».
A Vallombrosa, l’hotel ristorante La Foresta è chiuso ormai da tanto tempo. Stessa vicenda per il Villino Medici; solo gli alberi in fiore nascondono i vetri delle finestre sfondati. Chiuso anche il bar La Foresta, con i teli alle vetrate: «Se riapre con la stagione? E chi lo sa?», dicono i vallombrosani. Per la comunità, la peggiore notizia è stato l’addio di un pezzo di memoria come il ristorante Santa Caterina: con la sua forma a pagoda e gli arredi in legno, era nato negli anni ‘50. A Vallombrosa raccontano che il titolare ha deciso di spostarsi a Reggello, ma che hanno visto qualcuno fare dei lavori dentro: «Forse riapre». Da dietro le finestre, tutto è perfetto, ci sono le foto in bianco e nero alle pareti, ci sono i tavoli apparecchiati con le posate e i bicchieri. Ma la cassetta delle lettere è piena. Da un po’, nessuno è passato a ritirarle. In tutta la frazione, il sabato del ponte del primo maggio ad essere aperto c’è solo lo Chalet della Vecchia Cantinetta. «Il 25 aprile, dalla gente che c’era, avevamo una coda di dieci metri fuori dalla porta», raccontano. Ma in un bel sabato di sole, le auto sono po-
All’abbazia
Padre Giuseppe: «In queste condizioni non possiamo competere con le altre località»
A Saltino
Decine di profughi in un ex albergo: «Non hanno nulla da fare, non è accoglienza»
che, qualche coppietta per il picnic, un gruppo di motociclisti austriaci e alcuni cicloamatori. A due chilometri di distanza, a Saltino, c’è un po’ più di movimento. Due bar sono aperti, il resto no. Qualcuno ha in mostra il cartello sbiadito, di chissà quanti anni fa, che annuncia l’apertura dal primo giugno. Ma ci sono palazzine che non danno segni di vita: nessuna insegna, le persiane sfondate, le erbacce nel giardino, l’immagine dell’abbandono.
A monte, verso Secchieta, a dominare il panorama di Vallombrosa, c’è il Paradisino, il distaccamento del corso di laurea in Scienze Forestali dell’Università di Firenze. Anche qui è tutto blindato, gli intonaci crepati, ma almeno è il punto più bello per fare foto da cartolina all’abbazia, fondata nel 1058, ma che ha assunto gran parte dell’aspetto attuale tra Quattrocento e Seicento. Il pomeriggio si rianima un po’ con l’apertura della farmacia dei benedettini, tra profumi, liquori e saponette: «No, signora — spiega il monaco a una cliente — Non le facciamo noi, con tutte le leggi che ci sono oggi è diventato troppo complicato: le fa una ditta, ma con le nostre ricette antiche».
L’abbazia, malgrado i pochi religiosi rimasti, è in condizioni perfette. E nell’orto c’è l’abate, padre Giuseppe, col cappellino della vecchia Forestale, la maglietta bianca e gli stivali di gomma: «Siamo pochi, ma siamo giovani e ci diamo da fare. L’abbazia la curiamo, ma per il resto… Facciamo iniziative culturali, ma mica possiamo fare serate danzanti. Così qui la gente viene solo due mesi all’anno. E se a Ferragosto piove, qui si lavora un mese e mezzo». Eppure nei giorni di pienone, le domeniche, «la gente fa a cazzotti per un parcheggio. In queste condizioni come si fa a competere con altre località? A parte il riposo e il fresco, non offriamo nulla — spiega — Non c’è neppure un percorso pedonale tra il Saltino e Vallombrosa, si deve camminare sulla strada asfaltata rischiando di essere investiti. E con queste regole assurde che se casca un ramo nella foresta allora ci dev’essere un responsabile...». In mezzo alla strada, tra Saltino e Vallombrosa, c’è un gruppo di richiedenti asilo africani che ciondola con un pallone da calcio, senza sapere cosa fare. Uno di loro prende una scopa e spazza la strada. Due anni fa il sindaco di Reggello, Cristiano Benucci, tuonò contro la decisione della Prefettura di ospitarli all’ex albergo Abetina: sono stati fino a 120 in un paesino di 50 anime. Le vittime sono proprio loro, i richiedenti asilo, nessuno che abbia pensato di insegnargli il lavoro di forestali: «Mandarli quassù significa tagliarli fuori da ogni opportunità — dice padre Giuseppe — Il primo principio dell’accoglienza non è l’accoglienza, è il lavoro».