MAGNI, IL TABÙ DI PRATO E L’ONORE SPORTIVO DI UN VINCITORE DEL GIRO
Con Il “caso” Fiorenzo Magni. L’uomo e il campione nell’Italia divisa Walter Bernardi, già ordinario di storia della scienza all’Università di Arezzo-Siena e presidente della «Casa pia dei Ceppi», nonché ciclista dilettante e studioso di ciclismo, chiede di guardare con distacco alla storia. Una storia di ciclismo e di guerra civile nella Toscana divisa del 1943-45, che ha un nome: Fiorenzo Magni. Giorgio Bernardini sul Corriere Fiorentino dello scorso 28 ottobre registrava la dura opposizione della presidente dell’Anpi pratese, Angela Riviello, dinanzi alla proposta di Bernardi di intitolare a Magni l’anello ciclabile che circonda la pista di atletica di Galcetello a Prato.
Ora il libro getta una luce chiara e definitiva sulla figura controversa del ciclista di Vaiano, il «terzo uomo» del ciclismo italiano del dopoguerra, che riuscì a contrastare Bartali e Coppi, vincendo per tre volte il Giro d’Italia nel 1948, 1951 e 1955 e per tre volte quello delle Fiandre. Immortalato nel 1956 nello sforzo di pedalare con una clavicola rotta e un tubolare stretto tra i denti sull’erta del santuario di San Luca, a Bologna, quando arrivò secondo a un Giro dal quale Coppi si era ritirato già alla sesta tappa. Magni fu grande amico di Alfredo Martini, un altro gigante del ciclismo, commissario tecnico della nazionale dal 1975 al 1997, che alla sua morte, nel 2012, disse: «Noi ci siamo voluti bene come fratelli, c’era un grande rispetto anche quando discutevamo di politica».
Ma Magni non era di sinistra come Martini: fu fascista nell’Italia divisa dopo l’8 settembre 1943. Il sindaco comunista di Prato, Alfredo Menichetti, fu costretto alle dimissioni per essersi congratulato con il campione pratese, vincitore del Giro nel 1948. Alla conclusione di quel Giro, al velodromo Vigorelli di Milano, Magni gridò all’inviato di Stadio, il partigiano Enzo Biagi, «ritorno al mondo», nella speranza, delusa, di aver scontato la propria colpa grazie alle imprese sportive. In realtà, già nel 1944 Magni prese le distanze dal suo recente passato, trasferendosi nel Nord Italia, dove partecipò ad azioni a favore della Resistenza. Un passato segnato dalla battaglia di Valibona, dove all’alba del 3 gennaio 1944 morirono tre partigiani e quattro repubblichini. Berardi lesse di questa vicenda in un capitolo di Pedalare! La grande storia del ciclismo italiano (2011) dello storico inglese John Foot, che ora presenta questo libro come «un esemplare e accurato resoconto», arricchito dallo studio degli atti di quel processo. L’autore si domanda come mai il «caso» Magni rimanga un tabù per i pratesi, mentre per altri toscani, come il pittore rignanese Ardengo Soffici e l’attore e regista fiesolano Giorgio Albertazzi, «che avevano collaborato attivamente a fianco dei nazifascisti», la memoria si è ricomposta.
Il Comune di Prato ha intitolato nel 1981 una strada a Soffici, che aveva firmato nel 1938 il «Manifesto della razza» e dopo l’8 settembre aveva invitato gli italiani a combattere a fianco dei tedeschi. Il sindaco comunista di Prato Roberto Giovannini «si compiaceva di conservare tra i propri libri una fotografia di Albertazzi con la dedica autografa». Albertazzi combatté nel «ridotto» della Valtellina, dopo il 25 aprile, tra gli ultimi repubblichini fedeli al Duce. Secondo Bernardi si salvano gli intellettuali di buona famiglia e si condanna il figlio di un carrettiere, costretto a 17 anni, alla morte del padre, a lasciare la scuola per sostentare la famiglia, senza abbandonare la sua passione per il ciclismo. Magni non si rendeva conto che doveva cogliere i segni del tempo. Per esempio, profittando del gemellaggio tra Prato ed Ebensee, cittadina austriaca che ospitò un lager nel quale erano stati assassinati tanti pratesi: «un patto di amicizia e di gemellaggio che […] sanciva la comune volontà di operare per “l’affermazione della pace nel mondo”», come scrive Camilla Brunelli in un volume curato dall’Anpi di Prato nel 2012. Bernardi è iscritto all’Anpi e da antifascista ricorda che il vero rischio, oggi, «non è la riabilitazione dei vecchi nemici […], ma l’indifferenza dei giovani di fronte alla memoria delle nostre tradizioni, la dimenticanza dei valori perenni che sono alla base della Costituzione repubblicana». In fondo, chiede di restituire a Magni quell’onore sportivo conquistato con la vittoria al Giro del 1948. Senza dimenticare la loro passata fede fascista, per la quale hanno tutti, in diversa misura, già pagato.