Nella Toscana di Piccioni
Addio al grande critico, maestro del ‘900 e tra i massimi studiosi di Ungaretti Oggi i funerali a Pienza, il borgo prediletto. «Sapeva riconoscere il cuore di ogni verso»
Leone Piccioni immaginava la letteratura come un lungo fiume: Dante, Petrarca e Boccaccio la fonte; Ungaretti, Montale, poi Mario Luzi e gli altri grandi toscani il suo approdo novecentesco. Non era un critico letterario a cui bastava «leggere», gli occorreva «vivere» l’esperienza poetica. A contatto con i protagonisti e con il contesto in cui ogni verso nasceva. Sia in retrospettiva storica come nel quotidiano. Tanto nel silenzio privato del suo studio, quanto nella festosa dimensione conviviale di una tavola imbandita. «Voleva sentirsi figlio della tradizione toscana» ricorda la sua allieva e amica per tre decenni, la professoressa Silvia Zoppi Garampi.
Per questo aveva scelto Firenze come luogo di formazione, lui che era piemontese di nascita. E poi Pienza come «la città ideale» perché «costruita secondo gli ideali di perfezione umanistici quattrocenteschi». Tanto da volerci mettere radici mezzo secolo fa: una casa torre, il buen retiro per ogni fuga da Roma dove andare a consumare pranzi e cene condite di discorsi letterari e ricerca spirituale in compagnia dell’inseparabile Mario Luzi e dei consiglieri religiosi Ivo Petri e Fernaldo Flori, i «preti letterati» amici di una vita. Luogo scelto anche per la tomba di famiglia dove è sepolto il fratello Piero, musicista autore di alcune delle più note colonne sonore del cinema italiano. È nel Duomo di Pienza infatti che si celebreranno le esequie (oggi alle 15.30) di questo grande critico letterario, testimone del Novecento, scomparso martedì notte all’età di 93 anni. Nel borgo che lui aveva scelto «innamorandosi come in un colpo di fulmine» e che a sua volta lo aveva scelto, nominandolo cittadino onorario dopo che un giorno, nei primi anni Sessanta, vi si era trovato quasi per caso, vagabondando in macchina con Emilio Cecchi e Ungaretti lungo la via Cassia (veniva da Roma a Firenze e ancora non esisteva l’Autosole).
Ma Leone Piccioni si sentiva anche «pistoiese», «in una ideale sintonia con i Della Robbia». Non di meno per amore dei fagioli di Sorana che prediligeva gustare alla trattoria da Cecco a Pescia. A Pistoia decise di fondare il Premio Letterario Il Ceppo, negli anni Cinquanta, insieme agli amici Carlo Betocchi, Nicola Lisi, Mario Luzi, Carlo Bo, Piero Bigongiari e Gema no Pampaloni. Un pezzo della sua vita era indissolubilmente legato a Forte dei Marmi, dove negli anni Cinquanta e Sessanta al Quarto Platano, oggi caffé Roma, si intratteneva con Montale, Ungaretti e Gadda. Ogni fine estate era in Versilia che veniva a registrare una puntata speciale del suo L’Approdo Letterario, per la Rai. Per non parlare del Premio Viareggio di cui è stato a lungo tra i principali animatori. È nella sua casa del Forte che nel luglio del ‘50 realizzò l’ultima storica intervista a Cesare Pavese, due mesi pri- che si togliesse la vita. Mentre un altro pezzo — più recente — aveva solide fondamenta a Certaldo, per il Premio Boccaccio, insieme a un altro amico e a lungo compagno di strada in Rai, Sergio Zavoli.
Leone Piccioni — lo ricordano così Zoppi Garampi e Paolo Iacuzzi, che ne ha raccolto il testimone alla guida del Premio Ceppo — si faceva guidare da due stelle polari: la letteratura come conforto dell’anima e la convivialità come conforto del corpo. Per 70 anni è stato uno dei testimoni principali delle vicende letterarie, punto di riferimento della critica cattolica e non solo, allievo di Giuseppe De Robertis e Giuseppe Ungaretti, maestro tra i maestri. Libero docente di letteratura italiana moderna e contemporanea, instancabile autore di studi e saggi critici sulla letteratura del 1800 e 1900, sul jazz la poesia afroamericana e animatore culturale in Rai fin dal ‘46 dove è stato fino agli anni ‘90 arrivando a ricoprire dal ‘69 la carica di vice direttore.
«Da De Robertis ha appreso la capacità di saper leggere un testo letterario e offrire un giudizio di valore, peculiarità da sempre vivissima in lui — racconta Silvia Zoppi Garampi — unita alla capacità intuitiva di chi sapeva cogliere immediatamente il “cuore” di un verso, i suoi elementi distintivi». Da Ungaretti «ha imparato la liberalità, la capacità di avere giudizi e atteggiamenti liberi nei confronti della letteratura — prosegue — senza pregiudizi. Era un liberale cattolico, per 5 anni responsabile della pagina culturale de Il Popolo, organo della Dc, ma amava circondarsi di colleghi di estrazione liberale come Gadda o comunista come Domenico Rea». Questa visione «libera e aperta sulla cultura gli veniva da Ungaretti, uomo che non aveva confini né padroni». Una caratteristica inusuale «in un’epoca di forti contrapposizioni ideologiche». La sua grandezza — tiene a precisare la professoressa — «è stata saper cogliere un’unità letteraria, la capacità di selezionare il meglio senza pregiudizi, dialogando con il mondo laico dei Lincei e con quello comunista dalla sua posizione marginale, in quegli anni, in quanto cattolico».
Diretto, franco, leale, «tanto nei confronti di ciò che leggeva quanto nella quotidianità dei rapporti d’amicizia — chiosa la docente — non conosceva l’ambiguità». Questi gli aggettivi con cui viene ricordato dai più. «La sua critica era un corpo a corpo con la poesia, perché legata all’amicizia, al contatto diretto, ai rapporti epistolari — dice Iacuzzi — La letteratura e il suo vissuto erano per lui una cosa sola».
L’allieva Silvia Zoppi Garampi Voleva essere figlio della cultura di Dante, Petrarca e Boccaccio, fino a Luzi