Un promemoria per il buon governo
Una guida ispirata dall’affresco di Ambrogio Lorenzetti
Le case sono vuote, accatastate le une sulle altre in allarmante disordine. L’unica bottega che ha il suo daffare prepara armi. Una donna in rosso è trascinata via a forza, ignara della sorte che le toccherà. Un uomo è stramazzato al suolo esanime: un bambino sembra additarlo sbalordito ad un compagno. La violenza ha reso deserte le vie. Dalla porta della città esce un cavaliere, preceduto da due armigeri che sfoderano lance appuntite. Nessuno entra. Il cielo è cupo. Non vibra uno spiraglio di luce. Sono gli Effetti del Mal Governo dipinti da Ambrogio Lorenzetti sulla parete di sinistra della Sala della Pace, nel Palazzo Pubblico di Siena, tra il 1338 e il ’39, negli anni fervidi della costruzione di un Comune che finalmente fosse in grado di voltar pagina e avviare la città verso una prospettiva di condiviso sviluppo.
Leggo a ritroso il poema in figure e versi pensato per rammentare a governanti e governati i disastri provocati da una distruttiva e paralizzante guerra civile. Non tengo conto degli avvertimenti che gli storici seri non si stancano di ripetere, né dei canoni di un’interpretazione filologica aderente a quei tempi tumultuosi.
So bene che le Virtù convocate nelle sezioni allegoriche portano nomi propri di una rigorosa dottrina e che i Vizi rovesciano ideali appassionatamente predicati dagli iniziatori di un umanesimo di matrice classica, da porre a fondamento di un’etica repubblicana e cristiana. Ma i nomi sia pure con significati mutati hanno resistito nei secoli. Il lessico che scandiscono echeggia nel nostro presente, ci interroga. L’enfasi apocalittica del pittore-filosofo non impedisce di cogliere assonanze e repliche.
Ha ragione chi sostiene che l’impianto delle nostre teorie politiche deriva da una teologia che fa valere ancora le sue verità. La stasis, la guerra civile che lacerò la città greca, è proseguita, in forme diverse, clamorose o mascherate. Avarizia (5), Superbia (6) e Vana- gloria (7) sovrastano una cornuta, babilonica Tirannide
(1). Strabica perché non è in grado di discernere e di persuadere. Ogni accorgimento è utile per arricchirsi, accumulando ricchezze e minacciando col pugnale. Allora una città era il mondo. Tiranno era considerato colui che arraffava il potere senza legittimazione. Lunga sarebbe la lista. Non è improprio — mi vien fatto di fantasticare — ricordarla o scorgerla all’opera in tante aree della nostra sconvolta geografia: Sukarno e Mobutu, Bokassa e Pol Pot, Saddam e Milosevic, Maduro e Kim Jomg Un, per non evocare i dittatori dell’altro ieri, spietati nell’Europa delle buone maniere: Mussolini, Hitler, Stalin.
La tirannia oggi come si manifesta? Quale il confine tra sanguinaria oppressine e persuasione occulta? Le mafie uccidono senza scrupoli. Le spregiudicate manovre finanziarie e commerciali praticano le strategie più sottili pur di dominare a ogni costo e difendere il «bene proprio», esaltando egoismi personali e nazionali. Il Bene Comune (1) che incontrerò più avanti è un saggio e vegliardo giudice: il Comune stesso, chiamato ad applicare la giustizia regolando il mercato e compensando con equità. D’accordo — penso — la Giustizia (10), non intesa in senso giurisdizionale, ma come equilibrata capacità di governo ispirata dalla biblica Sapienza, ignora le finalità sociali che siamo abituati ad attribuirle. Sorveglia chi ha.
Tirannide, Avarizia, Superbia: i nomi sia pure con significati diversi hanno resistito nei secoli
Con La Pira ci trovammo a esaltare Prudenza, che prima di decidere analizza presente, passato e futuro
Ieri e oggi
Allora una città era il mondo. Tiranno era considerato colui che arraffava il potere senza legittimazione Lunga sarebbe la lista...
Gli esclusi restano esclusi. Ma qui — ahimè — giace a terra, fasciata e immobilizzata come una mummia. La mostruosa e complice accolita che assiste Tirannide dà concretezza visibile ad una critica spietata. La scarmigliata Crudeltà (2) minaccia un bambino. Il Tradimento (3) sa mascherarsi carezzando un agnello. La Frode (4) sfoggia vesti seducenti. Il Furore (8) è un maligno centauro, metà uomo e metà bestia. Ogni anno tre milioni di bambini muoiono di fame. La fedeltà agli ideali non è principio fortunato in una fase di invalsi trasformismi. Le «fake news» con la loro carica eversiva sono solo uno dei trucchi di chi fa dell’inganno mezzo di supremazia. E il furibondo terrorismo che semina morte non è la figura moderna di una cieca furia contro la nuda vita? La politica della paura è in auge come non mai. In controluce mi appaiono gli eserciti dell’Isis, gli scalmanati fondamentalisti che ignorano tolleranza e rispetto. Le due figure all’estremità suscitano amare meditazioni. La Divisione (9) in bianco e nero è un riferimento preciso alle coeve vicende senesi, ma esprime, alla perfezione, la logica oggi inappellabile e rovinosa del «sì» e del «no»: con una sega che rescinde qualsiasi comunicabilità tra i campi antagonisti.
Ambrogio e i Nove in nome dei quali eseguiva il suo manifesto avevano in mente una società corporativa e compatta, dove il Bene Comune fosse sacro e indiscutibile. Ideologia certo non riproponibile. Ma la Concordia (12) che discende da una leale condivisione dei fini a base della convivenza è necessaria in ogni sistema. Qui mantiene stretti i cittadini più in vista, e produce consenso. La corda che la materializza finisce nel polso fermo del saggio Comune. Oggi nella «società liquida» che annulla rapporti di lealtà e collegialità di scelte non c’è posto per una solidarietà fattiva e benefica. Non è un caso che la nera Guerra (10) chiuda la truce squadra dell’assolutistica e solitaria Tirannia: rovescio cromatico e ideale della candida Pace (7) che sta al centro dell’Allegoria del Buon Governo. Reclinata e quieta la bella donna contempla sulla parete a lato gli effetti che scaturirebbero da una retta gestione della cosa pubblica. Svolazza minacciosa in alto una scheletrica Sicurezza, mostrando un impiccato e più in là Timor, Paura, semina terrore e ammonisce dispiegando un cartiglio: all’origine dello stato di incertezza che assale chiunque transiti per queste vie sta la corsa al «Ben propio» e la sottomissione della Giustizia ad un Potere senza scrupoli: «non passa alcun senza dubbio di morte, / che fuor si robba e dentro dalle porte». L’asprezza della pena non basta a ottenere pacificazione e placare gli odi. Un insegnamento che nella sostanza suona attualissimo, smentendo ogni semplicismo. Non è chiudendo le porte o serrandosi in un’autarchica boria che si ottengono protezione e libertà.
Incrocio lo sguardo con la Pace (7), che sogna una città a mezzo tra utopia e cronaca e mi torna in mente una serata degli iniziali anni Settanta del secolo scorso. Ero sindaco. Mi raggiunse una pressante telefonata nel tardo pomeriggio: «Vengo a farti visita tra poco, non andar via, ho un mucchio di colleghi ai quali voglio far conoscere una bionda signora che abita dalle tue parti». Lì per lì non capii. Era Giorgio La Pira, che trascinava al suo seguito una fitta schiera di sindaci di città gemellate. L’emozione fu forte, indelebile. Desiderava siglare la visita toscana della delegazione con un inno alla Pace, quale la immaginò Lorenzetti. Non trascurando di esaltare le Virtù — irreperibili — che l’attorniavano e in primo luogo la fiammante Carità (4) e la riflessiva Prudenza (5) che prima di decidere sa analizzare passato presente e futuro: E la Magnanimità (8), che dispensa onori e denari non badando a tornaconti. Al termine dell’eccitata concione citò Erasmo: «La pace è madre e nutrice di ogni bene».