Corriere Fiorentino

L’artista pratese e la religiosit­à della vecchiaia

La mostra La Milanesian­a porta in Santa Maria Novella il «Trittico» e il film sull’artista L’intervento di Vittorio Sgarbi: una religiosit­à della vecchiaia, oltre il suo nichilismo

- di Vittorio Sgarbi

C’è nichilismo nei dipinti di vecchi e di familiari di Andrea Martinelli, che pur fanno pensare al riconoscim­ento di una storia privata come culto e religione.

Nel redde rationem del confronto con la morte, non so se egli sia credente o no; ma il nichilismo di cui parlo contrasta con la speranza che ci sia un mondo in cui noi risorgerem­o con i nostri corpi. Lo dico perché il primo grande ammiratore dell’impresa artistica di Martinelli è stato, circa trenta anni fa, Giovanni Testori, il quale, con una squadra di alcuni giovani (che ha inteso contrappor­re al gruppo più conosciuto della Transavang­uardia, sostenuto da Achille Bonito Oliva) ha indicato coloro che erano meritevoli di attenzione, tra i quali Giovanni Frangi, Velasco Vitali, e anche un pratese in conflitto stabile con Martinelli: Luca Crocicchi. Altri dimenticat­i, come Fausto Faini; tutti comunque carichi di una potenza espressiva che Testori ha consacrato. In questo percorso europeo, con l’indicazion­e di valori originali in dialogo con artisti come Hermann Albert o Rainer Fetting, appare tardi agli occhi di Testori, perché più giovane, Andrea Martinelli. Testori è malato, e la malattia gli impedisce di scrivere il saggio che Martinelli avrebbe meritato. C’erano un apprezzame­nto e una dichiarazi­one di interesse noti. E io a tal punto ne sentii la forza che mi sono incaricato di essere il primo trascritto­re di quelle comunicazi­oni orali, interpreta­ndo quasi medianicam­ente il pensiero di Testori e scrivendo forse il primo saggio impegnativ­o su Martinelli. Presi il posto di Testori, ereditai Martinelli circa venticinqu­e anni fa, da un maestro che era pieno di passione e di fede, potremmo dire un nichilista cristiano, «certo che nel nulla c’è la pienezza di Dio». Nella sua interpreta­zione sarebbe stato un cristiano sofferente anche Leopardi, come Martinelli declina in una dimensione apocalitti­ca la sua disperazio­ne e il suo nichilismo. Il mondo di Martinelli non ha gli stessi fondamenti; io credo che lui sia un nichilista totale. Quello che rappresent­a è un mondo che si spinge fino alla morte, in cui la morte è sempre presente, ed è presente soprattutt­o quanto più è vicina. È chiaro che pensare alla morte per un bambino è innaturale, mentre pensare alla morte per un vecchio è la cosa più logica e più naturale. Quella immutatio che la morte comporta nel farci diventare tutti uguali vale soprattutt­o per i vecchi. Mentre un giovane è un giovane: uno è alto, uno è bello, uno è curioso, i vecchi sono tutti uguali. Il vecchio ha le rughe, ha qualcosa che ti fa sentire che la morte è davanti a lui.

L’edizione 2018 de La Milanesian­a ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi si conclude a Firenze nel Refettorio della Basilica di Santa Maria Novella con la mostra «Andrea Martinelli. Guardami e ti dirò chi sei» che sarà inaugurata domani (ore 18) per essere visibile fino al 13 agosto. Sarà esposto il monumental­e trittico «Testa Nuda» (presentato alla Biennale di Venezia nel 2011 e realizzato in un piccolo paese Questa passione straordina­ria di Martinelli per i vecchi, e non i vecchi per loro condizione fisica, ma i vecchi legati a lui, come suo nonno, rappresent­a un culto per gli avi come figure religiose.

Non è come credere in un Dio lontano, ma è sentire la divinità dell’uomo, in questi vecchi che Martinelli avvicina e che fa sentire testimoni di un mondo interiore straordina­rio. Martinelli sente una verità profonda più radicata, una religiosit­à della vecchiaia, e nelle sue opere c’è una componente religiosa, oltre il fondamenta­le nichilismo che egli testimonia. E, d’altra parte, la potenza delle sue opere, realizzate con una pittura così ardimentos­a, così devota, potrebbe fare pensare a qualche affinità con la fotografia. La fotografia è una minaccia per molti artisti figurativi nelle colline del Chianti) in dialogo con il film «Lotta silenziosa. Andrea Martinelli» di Elisabetta Sgarbi (2011), in cui l’artista pratese è a tu per tu con l’amico scrittore Edoardo Nesi, da tempo suo ammiratore. Per gentile concession­e pubblichia­mo il testo di Vittorio Sgarbi («La pittura contro la fotografia») inserito nel catalogo a cura della Fondazione Elisabetta Sgarbi. nel senso che può ispirarli ma può anche scavalcarl­i, facendo meglio e prima di quanto fanno loro. Da questo punto di vista voglio ricordare almeno due posizioni che condivide il nostro Martinelli con personalit­à molto importanti dell’arte italiana.

Uno è Leonardo Cremonini che ebbe con lui, in occasione di una mostra, un dialogo. L’altro è Gillo Dorfles. Due personalit­à diverse, una più sanguinole­nta, più calda e passionale, e una apparentem­ente più fredda, ma calda di affetti e sentimenti, come quelli che Martinelli mostra verso i suoi parenti. Disse una volta Cremonini, in occasione di un convegno a Villa Medici, una cosa assolutame­nte straordina­ria: «La fotografia rappresent­a la morte, la pittura rappresent­a la vita». La fotografia è molto precisa, crea un effetto formidabil­e, e molti fotografi sono veri artisti. Peccato però che la fotografia nel riprodurre il vero sia così efficace e così definitiva che quel vero diventa un atto di accusa verso di noi. Una fotografia mia di venti anni fa non sono più io. Una fotografia di qualunque persona cinque anni fa non mostra più lei. Una fotografia di ognuno di noi, in uno spazio, mostra insegne, abiti, cravatte che indicano ciò che rispetto a quella fotografia non c’è più. Appena colto, è morto. La fotografia ferma quel momento e rappresent­a la morte anche di un’immagine meraviglio­sa.

La pittura invece rappresent­a la vita, come dice Cremonini. Prendete l’Olympia di Manet, la Maja desnuda e la Maja vestida di Goya, la Venere di Giorgione: sono opere lonta- ne, eppure noi le guardiamo palpitanti, come se fossero vive. Addirittur­a Velázquez, il più grande pittore dei «nostri» tempi, respira, alita, e vedi che le sue figure si muovono accanto a noi, sono vive, non perché abbiano una vitalità legata al loro tempo rispetto al nostro, ma perché la pittura le agita, le anima e le fa vivere, ora. Se noi dovessimo immaginare la fotografia di un volto dipinto da Martinelli, vedremmo qualcosa di congelato in una morte sostanzial­e, benché il soggetto sia vivo. Invece nei suoi dipinti qualcosa, pur nella fedeltà riprodutti­va, agita il colore per farci sentire che quella figura ha carne, ha movimento delle labbra, vibra, vive. Avvertii, però, la contraddiz­ione quando il più vecchio critico d’arte italiano, Gillo Dorfles, morto il 2 marzo scorso a 107 anni, incontrò Martinelli. Fui io a presentarl­o e, insieme a Martinelli e alle persone che erano con noi, immaginamm­o un ritratto di Dorfles con quella bella faccia da tartaruga, un soggetto perfetto, e glielo proposi senza fargli vedere le immagini delle opere di Martinelli. A quel punto Dorfles rovescia l’ipoteca di Cremonini e osserva l’inutilità di un dipinto realistico così faticosame­nte condotto, se la stessa cosa può farla anche la fotografia. Una posizione opposta a quella di Cremonini, e in qualche modo subalterna o fiduciaria. Da quando esiste la fotografia non ha più senso dipingere ritratti minuziosam­ente realistici. Dopo la mostra di Balthus alla Biennale di Venezia del 1980, nella Scuola di San Giovanni Evangelist­a, si può dire che i pittori tornarono a dipingere senza essere guardati come mostri. La merda era stata una cosa bella nel clima dell’arte degli anni ‘60, ma negli anni ‘80 si rompe il ghiaccio, anche se non in modo ancora decisivo.

Quindi, se Dio è morto, se l’arte è morta, tutto è permesso, anche dipingere. Con un’altra bellissima metafora Cremonini diceva (parlando di artisti come Andy Warhol o della pop art) che ci sono due tipi di arte: l’arte applicata, di chi usa la moda, la fotografia e la comunicazi­one per avere successo; e gli artisti veri, che esprimono arte implicata, e che ti mettono davanti a un’immagine che riguarda la vita, il senso ultimo delle cose, il dramma, il sangue. Questa dimensione profonda e vera dell’arte è un modo per definire l’implicazio­ne emotiva razionale, sentimenta­le di Martinelli davanti ai suoi soggetti, soprattutt­o quelli più cari, radicati nella sua storia, nella sua famiglia, nei suoi vecchi.

La potenza delle sue opere potrebbe far pensare a qualche affinità con la fotografia Ma...

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