Il Pd alla riprova Marchionne (un’identità ancora da trovare)
La malattia del manager e un modello che continua a dividere. «Ha creato lavoro». «Non è un eroe»
C’è un uomo alla fine della sua vita: è il padre, il compagno, l’amico. Ma quell’uomo, con il suo lavoro, è diventato anche un simbolo pubblico, tra chi lo considera il manager più innovativo dell’Italia recente e chi, al contrario, lo vede come un cinico tagliatore di posti di lavoro. Perché così, virgola più virgola meno, è ancora oggi visto Sergio Marchionne nel Partito Democratico: un simbolo talmente forte da dividere anche persone che militano nella stessa forza politica. Provare per credere. «Penso che la sinistra debba avere come priorità il lavoro. E che se non ci fosse stato Marchionne oggi la Fiat avrebbe assai meno occupati, o forse non ci sarebbe più. Penso inoltre che se nelle imprese italiane (pubbliche e private) ci fossero stati più dirigenti come Marchionne l’economia nazionale oggi darebbe lavoro a più persone e avrebbe risultati migliori», dice Dario Parrini, senatore Pd ed ex segretario toscano del partito, sulla scia delle parole usate da Matteo Renzi nell’intervista di ieri a La
Stampa: «Nel 2011 io dissi che nel referendum di Pomigliano avrei votato sì, e fui sommerso dalle critiche da sinistra: una parte di Pd identificava Marchionne col “padrone”, ma il lavoro si crea con l’impresa, non con l’assistenzialismo». Sette anni dopo, sono passate non una ma due ere politiche, però lo scontro — seppur con toni molto diversi, dovuti al rispetto per le condizioni mediche dell’ex ad di Fca — resta lo stesso. Irrisolto. Come l’identità del Pd, anche in Toscana che è stata una delle forze motrici della nascita del partito 11 anni fa.
«Padrone no — dice la giovane consigliera regionale Alessandra Nardini, sinistra Pd — ma non si può ergere a eroe della patria un seppur abilissimo manager che ha lavorato per gli interessi degli azionisti e che (visto che non ne aveva il compito) non si è mai occupato della politica industriale del Paese. Anche perché gli utili prodotti dall’azienda non andavano nelle casse dello Stato. Né la forte contrazione degli occupati Fiat o la delocalizzazione può essere considerata un esempio». E la deputata senese Susanna Cenni, esponente della sinistra Pd: «Faccio fatica a pensare a Marchionne come a un novello Olivetti, ma era anche un’altra epoca. Il Pd che vorrei guarda all’impresa e alle buone relazioni sindacali, perché la qualità del lavoro e del prodotto sono legati a questi due aspetti».
«Ma ci ricordiamo di cosa era la Fiat prima di Marchionne? Ci ricordiamo di quanto pesava sui bilanci pubblici?», si accalora la deputata renziana Rosa Maria Di Giorgi, che definisce Marchionne «un orgoglio italiano». «Lui ha capito che così come era la Fiat non poteva reggere e l’ha cambiata. Con modi bruschi, ma la situazione era eccezionale. Prenda Termini Imerese: lo sapevano tutti che nello stabilimento imperava un modo all’italiana di gestire i cicli produttivi, con ritardi nelle consegne, purtroppo con il sostegno dei sindacati...». Non la pensano così solo i renziani. Paolo Bambagioni, consigliere regionale vicino a Michele Emiliano e storico avversario di Renzi, definisce i compagni di partito che criticano Marchionne «la vecchia sinistra che ha bisogno di un nemico per esistere. Un manager che rilancia una azienda creando posti di lavoro è un valore aggiunto non solo per gli azionisti ma anche per la società civile».
«Nuovo» contro «vecchio», approccio liberale contro partito del lavoro. Chi — dirigenti e militanti — proviene dalla storia della sinistra ha nel suo Dna il modello su cui è stato costruito lo sviluppo della Toscana dal Dopoguerra in poi: l’alleanza tra lavoratori, piccoli imprenditori e artigiani, diffidente dei grandi capitani d’industria. Chi si definisce renziano, che sia ex Ds o abbia un background cattolico-democratico, guarda al modello Macron. Nello scontro su ciò che ha fatto Marchionne in Fiat ci sono i tormenti del Pd su quello che può o non può diventare. O forse poteva, perché comunque sia ormai è tardi? Vannino Chiti, che ha vissuto da governatore della Toscana, insieme all’allora sindaco di Pontedera Enrico Rossi, la grande crisi della Piaggio degli anni ‘90, che voleva lasciare la città pisana per Nusco, Avellino (il paese di Ciriaco De Mita), dice che «Marchionne si è mosso nel quadro creato dal capitalismo attuale: poche regole e l’idea che la democrazia deve essere molto semplificata anche nei luoghi di lavoro». Ma la sinistra, sottolinea Chiti, «ha sbagliato a rispondergli difendendo un passato che non c’è più. Il punto è che dobbiamo costruire un nuovo compromesso tra mondo lavoratore dipendente e capitalismo. Anzi, avevamo già dovuto farlo... Siamo in ritardo e questa lentezza ci rende subalterni». E divisi, come sette anni fa.
Di Giorgi Un orgoglio italiano, ha salvato la Fiat
I modi bruschi? A Termini Imerese c’era una gestione all’italiana, sostenuta dai sindacati
Chiti
Si è mosso nel quadro del capitalismo con poche regole, ma la sinistra ha sbagliato a rispondere difendendo un passato che non c’è più
Nardini
La forte contrazione degli occupati in Fiat o la delocalizzazione non possono essere considerati un esempio