Corriere Fiorentino

«Sergio è stato il cambiament­o che io avevo solo progettato»

- Mauro Bonciani

Era il 1998 quando l’avvocato Gianni Agnelli lo chiamò alla guida della Fiat, al posto di Cesare Romiti: rimase alla presidenza del gruppo fino al dicembre 2003, negoziando l’accordo con General Motor che ha consentito a Sergio Marchionne di far ripartire la Fiat. Paolo Fresco, residente a Fiesole, manager con alle spalle una lunga carriera negli Usa in General Electric prima di arrivare ai vertici dell’auto, da quel 2004 è stato lontano dal mondo Fiat — «quando uno lascia, lascia» — ma è anche rimasto, ed è, amico di John Elkann. E attento osservator­e del business dell’auto e dell’economia.

Dottor Fresco, chi è Sergio Marchionne?

«L’ho conosciuto tempo fa grazie a John Elkann che lavorava con me, il suo primo lavoro fu essere mio assistente, e mi ha subito colpito per le sue qualità. Non l’ho frequentat­o, perché come le dicevo se uno lascia un’azienda è bene che lo faccia davvero, non resti per così dire in zona, ma sono stato in sintonia con il suo indirizzo strategico. E ha fatto un eccellente lavoro. I fatti parlano per lui».

In sintonia su cosa? «L’indirizzo strategico era chiaro fin da subito, lo stesso che avevo io ma che non ho realizzato: per il tempo a disposizio­ne, sono stato presidente della Fiat per meno di cinque anni, e per le risorse. E perché forse il tempo non era maturo. La volontà era la stessa che ho portato avanti in GE, competere in un mondo globale. Fare della Fiat una impresa che partecipas­se ad un grande gruppo mondiale, dato che non poteva sopravvive­re restando con la base prevalente nazionale. Non aveva volumi, né mercati importanti per competere con i giganti dell’auto, settore che da sempre è globale. Da lì, la decisione di fare l’intesa con General Motors».

L’intesa senza la quale Marchionne non avrebbe salvato la Fiat e che lei costruì.

«Io ho posto le basi che lui ha saputo sfruttare in maniera brillantis­sima, usando l’unica arma che aveva il gruppo, cioè quella di vendere agli americani se avessimo voluto, dato che non c’erano le risorse per acquisire GM, con l’obbligo di acquisto da parte di GM. È stato veramente un abile negoziator­e, come lo fummo forse noi quando chiudemmo l’intesa».

Come giudica l’acquisizio­ne di Chrysler?

«È stato il grandissim­o colpo di Marchionne. Se aveva messo a posto la situazione finanziari­a grazie al negoziato con GM, con l’acquisizio­ne di Chrysler ha realizzato quella esigenza produttiva che anche noi avevamo chiara. Lui ha colto la crisi dell’auto negli Usa, un fatto che ai miei tempi non era possibile, convincend­o il presidente Obama e ottenendo il massimo vantaggio per l’azienda. Se la Fiat adesso va bene è perché ha i marchi americani, per la conquista di Chrysler che le consente di competere. E non è finita qui, come del resto ha detto anche Marchionne: ci vuole un altro passo per arrivare ad essere un grandissim­o gruppo, anche se a quel punto di diluirà il controllo pieno che oggi la famiglia Agnelli ha di FCA. Quando un gruppo cresce, l’importante è l’interesse del gruppo, più che il modo di controllar­lo, e sono certo l’italianità avrà sempre un ruolo importante».

Marchionne sta avendo tanti elogi, ma anche critiche. Perché non ha mantenuto le promesse sugli stabilimen­ti italiani, per i suoi rapporti con il sindacato, per il ritardo sui prodotti, ad esempio l’auto elettrica. Per aver fatto l’interesse degli azionisti e non del Paese o del lavoro. Se le aspettava?

«Ho visto, ma le trovo critiche parziali. Marchionne, come ogni bravo manager, ha fatto l’interesse dell’azienda, non il suo personale, e degli azionisti, ed ha salvaguard­ato al massimo possibile l’interesse del lavoratori. Poi è chiaro che se uno stabilimen­to è struttural­mente deficitari­o è difficile difenderlo. Marchionne ha lasciato un gruppo molto più efficente di come lo ha trovato. Le aziende sono fatte anche dagli uomini che le guidano. E lui come me ha una mentalità anglosasso­ne: sono molto più vicino a lui e a John Elkann che a persone come Romiti o Cantarella (che lasciò Fiat durante la presidenza Fresco, ndr)».

E ha saputo del post del presedente della Regione, Enrico Rossi, che ha provocato molte polemiche?

«Non l’ho letto e non commento quello che non conosco. In generale chi contrappon­e capitalist­i ai lavoratori fa un ragionamen­to veterocomu­nista, che ha già fatto tanti danni. Non è così che si crea lavoro e ricchezza».

Cesare Romiti ha attaccato la decisione di FCA di promuovere 4 manager stranieri.

«Se li hanno scelti è perché in questo momento sono i migliori, un’azienda valorizza sempre i propri talenti. Nella globalizza­zione, un processo ineliminab­ile e che ha aumentato la ricchezza sia nei Paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo, le logiche nazionalis­te non hanno senso: è l’azienda che deve vincere, non la nazione. E quando si valuta cosa ha fatto un’azienda per il Paese si dovrebbe valutare anche cosa fa il Paese per un’azienda. E in Italia, inutile nasconderl­o, ci sono difficoltà all’azione delle imprese, tanta burocrazia. La sfida è capire i cambiament­i, che ci sono sempre stati: eravamo un Paese di contadini, oggi siamo nel G8».

Il passaggio di consegne L’ho conosciuto grazie a John Elkann: mi ha subito colpito per le sue qualità

Le parole di Rossi Non commento quello che non conosco, ma chi contrappon­e capitalist­i ai lavoratori fa danni

I dubbi di Romiti La promozione di quattro manager stranieri?

Se li hanno scelti è perché sono i migliori

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Paolo Fresco, presidente della Fiat dal 1998 al 2003, con l’avvocato Gianni Agnelli
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