Quintavalle, la prima italiana d’oro nel judo
La livornese Quintavalle è stata la prima donna italiana a vincere un oro ai Giochi con il judogi addosso
Se i Giochi Olimpici prevedessero una classifica delle esultanze, in graduatoria generale ci sarebbe anche un’atleta livornese dal sorriso morbido sulla pelle scura, capace a Pechino 2008 di pennellare di rosa l’oro del judo e di festeggiarlo con una mimica presa a prestito dal goleador Luca Toni: mano roteante vicino all’orecchio, come a dire all’universo dei cinque cerchi: «Non so se avete capito…».
Il capolavoro olimpico di Giulia Quintavalle è già embrione quando questa ragazzina classe 1983 di Rosignano Solvay, alla quale le mura di casa stanno troppo strette, viene iscritta all’età di cinque anni a un corso di judo organizzato dal maestro Renato Cantini. Altro che basket, nuoto e atletica leggera. Altro che i volteggi e le parallele della ginnastica artistica, sperimentati e presto abbandonati. Il primo grande amore di Giulia è un’arte marziale che si pratica sopra un sottile materassino elastico. È solo lì, sul tatami, che lei timida e un po’ introversa, trova la sua dimensione ideale per completarsi come donna, per sprigionare tutto il fuoco agonistico che si porta dentro. Dalla piccola palestra di Rosignano a quella Kodokan di Cecina il passo è breve, ma quando i trofei cominciano a stipare casa Quintavalle, per Giulia si impone il trasferimento al centro olimpico di Ostia, preludio al professionismo, al tesseramento per il gruppo sportivo Fiamme Gialle, ai primi risultati internazionali da senior che fanno parlare della Quintavalle come la judoka destinata a incidere il suo nome nella storia italiana della disciplina. Campionessa nazionale nella categoria 63 kg per tre stagioni filate (dal 2004 al 2006); bronzo ai Giochi del Mediterraneo di Almeria 2005; podio nei tornei internazionali di Lione e Coimbra. Prima della graduale discesa ai 57 kg, un atterraggio tecnico, con un occhio alla dieta e al metabolismo decelerato, un altro al rispetto della soglia anaerobica. Un atterraggio riuscito bene, perché Giulia Quintavalle scivola dolce sulla pista dei Giochi, qualificandosi per l’Olimpiade cinese sotto la guida del nuovo tecnico Felice Mariani, non a caso il primo azzurro medagliato a un’Olimpiade (bronzo a Montreal 1976). Adesso è il momento di esibire in mondovisione valore e coraggio, di far sognare l’Italia a ritmo di koka e yuko, di prese soffocanti e di decise immobilizzazioni. Adesso è giunta l’ora di dimostrare che anche le italiane possono essere vincenti con un judogi addosso.
Sabato 11 agosto 2008, sul tatami del Ginnasio dell’Università di Scienze e Tecnologie di Pechino, teatro delle gare di judo, è il grande giorno per Giulia Quintavalle, l’outsider di un tabellone nel quale a contendersi tre podi olimpici sono inserite 23 atlete di 23 nazioni.
Nei sedicesimi di finale alla judoka di Rosignano Solvay tocca in sorte un osso duro come la tedesca Yvonne Bönisch, oro olimpico quattro anni prima ad Atene e ben quattro argenti tra Mondiali e Europei. Giulia è in grande forma. Supera il primo ostacolo, poi negli ottavi liquida la mongola Erdenet-Od Khishigbat, quindi nei quarti l’esperta francese di Nantes Barbara Harel. E non si arresta neppure in semifinale quando, opposta all’australiana di origini ungheresi Maria Pekli, subisce un forte colpo al gomito destro. Giulia accusa, soffre e piange, chiede la pausa. Stringe i denti, reagisce, domina. È troppa la voglia di vincere, di eleggere quell’11 agosto 2008 a giorno supremo della propria vita di atleta. Vola in finale contro l’olandese Deborah Gravenstijn che il podio ha voglia di scalarlo ancora, dopo essersi fermata sul terzo gradino di Atene. Ma Giulia ci sa fare su quel tatami cinese. Non perde né il coraggio, né la sana spregiudicatezza, e nemmeno l’accortezza tattica mostrati nei turni precedenti. Conquista un koka (il punto più basso) a inizio match e mette in cassaforte la vittoria con un yuko (punto con il secondo minor valore) quando mancano meno di due giri di lancetta alla fine del combattimento. Attacca e contiene, detta i ritmi della sfida, e niente può l’olandese Gravenstijn davanti a così tanta furia agonistica, se non mettere a segno un koka quando ormai il risultato è scontato.
A sette secondi dalla fine, il cronometro si ferma per un’interruzione. Giulia sa di essere a un millimetro dalla gloria, si fa il segno della croce. Poi il verdetto: è lei la nuova campionessa nella categoria dei 57 kg, prima azzurra nella storia a conquistare un oro olimpico nel judo. Alza il pollice destro, quindi l’indice e il medio insieme, in segno di vittoria. Quando nessuno se l’aspetta, fa ruotare la mano intorno all’orecchio, alla maniera dell’ex attaccante viola Luca Toni. Quel gesto di sfida e di orgoglio non è dettato dalla fede calcistica (lei juventina, con un fratello gemello a cui babbo Fabrizio ha dato il nome Michel in onore dell’ex bianconero Platini), ma le è stato suggerito dall’ amica e collega Antonia Cuomo. Rimarrà una delle più belle cartoline dell’Olimpiade cinese. «Ora potete chiamarmi Primavalle», scherza poi davanti ai microfoni e alle telecamere. Mentre a Casa Italia lo chef inizia a impastare le barrette di cioccolato per la grande festa di Giulia, eterna golosa.
L’overdose di notorietà che la pone al pari delle stelle azzurro-rosa di Pechino 2008 (Valentina Vezzali, Federica Pellegrini e Chiara Cainero) getterà col tempo molta pressione su questa ragazza forse troppo sensibile per soggiornare a lungo sotto le luci della ribalta. Due anni più tardi vince i campionati europei a squadre, poi la lenta eclissi iniziata con la finale per il bronzo persa contro la statunitense Marti Malloy ai Giochi di Londra 2012 e stimolata da una serie di infortuni che non le permetteranno di essere sul tatami di Rio 2016. Oggi, come a chiudere un bellissimo cerchio, la signora del Judo (questo il titolo dell’autobiografia uscita nel 2015) è rientrata a casa. Viaggio di solo ritorno, dalla caserma romana dell’Infernetto a Rosignano Solvay. Lavora come finanziere a Livorno, nel tempo libero insegna judo ai bambini di Cecina. Una mano all’orecchio, un’altra sul cuore.