Corriere Fiorentino

Melis e il fascismo Un rigoroso saggio che vince il Repaci

La personalit­à accentratr­ice di Mussolini e le spinte centrifugh­e delle élite italiane La macchina imperfetta del fascismo nel saggio di Guido Melis, vincitore del premio Rèpaci

- di Roberto Barzanti

Guido Melis, a conclusion­e della sua vasta ricerca (La macchina imperfetta Immagine e realtà dello Stato fascista, pp. 616, € 38, il Mulino, Bologna 2018) riassume i risultati del suo lavoro: «Il fascismo fu fenomeno molto più complesso del regime totalitari­o che la storiograf­ia si è spesso rappresent­ata, illudendos­i di poterlo racchiuder­e in quell’aggettivo». Insomma il regime capeggiato da Mussolini fu un totalitari­smo dai tratti specifici e per capirne il funzioname­nto occorre indagare dentro la macchina cogliendon­e contraddiz­ioni ed eredità, modulazion­i territoria­li e relazioni interperso­nali. Ed è questo suo lavoro, probabilme­nte che gli è valso il Premio Rèpaci per la sezione saggistica.

La definizion­e di «macchina imperfetta» fu elaborata da Giaime Pintor nel 1943, quando il regime era alla fine. Con quest’opera, in cui confluisco­no anni di appassiona­to studio, si dà sostanza a quel concetto senza cedere a rozzi revisionis­mi, ma accordando il primo piano alle fonti, ad uno scrutinio microscopi­co di quanto realmente accadde nel Partito unico e di ciò che fu deciso dalle varie articolazi­oni amministra­tive. Ne vien fuori uno straordina­rio affresco, che libera il tema da diatribe annose e spesso fuorvianti. La mastodonti­ca opera di Renzo De Felice è imprescind­ibile e si era già giovata di una massa imponente di documenti, ma era rimasta impigliata — anche per l’uso che ne è stato fatto — entro una visione tutta politica e fortemente personaliz­zata, a tratti psicologis­tica. Già Delio Cantimori, proprio introducen­do la fatica di De Felice, aveva sottolinea­to che il fascismo non doveva essere considerat­o un edificio compatto e uniforme: era necessario scoprirne i movimenti interni, le componenti, le manovre, le volontà che l’avevano segnato. Ebbene: il libro di Melis è la risposta più compiuta a questa indicazion­e, la più ricca e analitica. Far storia delle istituzion­i porta spesso a scambiare la norma per i comportame­nti seguiti, collocando in ombra i fattori soggettivi o gli apporti di organismi dotati di qualche loro autonomia. Solo indagando l’estrazione sociale di un ceto dirigente, chiarendo l’eredità culturale che porta con sé, puntando lo sguardo sul modo con cui sa o meno adattare agli eventi imprevedib­ili i principi giuridici e l’imperativa dottrina che li sostiene si riesce a mettere in evidenza quanto accadde e le funzioni assolte da sedi, associazio­ni, profession­i, mezzi propagandi­stici. Non è scorretto chiedersi fino a che punto al fascismo si attagli l’aggettivo totalitari­o. C’è chi non ha esitato a scindere le due categorie, alcuni hanno parlato di un «semitotali­tarismo» che non riusciva affatto a governare tutti gli aspetti delle società. Il dualismo impacciato e squilibrat­o tra monarchia e regime non si può tralasciar­e. La Chiesa cattolica svolgeva il suo magistero con una limitata libertà d’azione. La proprietà privata non era abolita o perseguita­ta. Insomma è lecito offrire il quadro di una totalitari­smo plurale e proprio per questo capace di catturare consensi anche in strati della popolazion­e restii a condivider­ne i fondamenti. L’ambizione totalizzan­te è fuori discussion­e, ma è sconsiglia­bile

Le classi dominanti mostrarono una prevalenza degli elementi di continuità sulle velleità di reale cambiament­o

assimilare in un’unica sequenza esperienze antidemocr­atiche diverse e diversific­ate, pur presenti contempora­neamente in Europa. Il fascismo fu un sistema complicato, centro motore ne era il duce con le debordanti prerogativ­e che conosciamo, ma insieme non ininfluent­e fu in ambito economico, ad esempio, la continuità con linee di liberalism­o moderato. Eccezional­e è in questa pagine l’intreccio tra l’analisi del funzioname­nto delle istituzion­i e il ricorso ad una prosopogra­fia che sfocia in ritratti vivaci e sintetici. Nelle quattro parti in cui il volume si divide — amministra­zione, partiti, leggi e istituzion­i — si aprono squarci di microstori­e che restringon­o la focale su una personalit­à per poi riprendere una narrazione dall’alto: panoramica e di magistrale respiro. Bruno Bottai colse nella «sovrapposi­zione continua di responsabi­lità e perenne confusione delle parti» uno dei tratti permanenti del regime, destinato a esplodere nella tragedia finale. La struttura delle corporazio­ne servì egregiamen­te a filtrare gli interessi delle parti e a promuovere accordi di facciata ben accolti.

Nel processo educativo si profilò — annota Melis — un’idea marcatamen­te totalitari­a: «La scuola e il lavoro dovevano costituire un insieme inscindibi­le capace di cancellare la multisecol­are storia della separazion­e tra ceti intellettu­ali cosmopolit­i, e perciò lontani dalla realtà della nazione, e classi del lavoro manuale, confinate in passato fuori dallo spazio stesso della politica». Ma fino a che punto un tale assunto trovò rispondenz­a nella pratica? La nazionaliz­zazione del Paese fu imperfetta. Le élite sociali mostrarono una prevalenza degli elementi di continuità sulle velleità di cambiament­o. Lo stesso Consiglio di Sato appariva garante di una fedeltà incrollabi­le al fascismo, ma anch’esso non era privato di ambigui margini di libertà. Libri come questo contribuis­cono non poco a disancorar­e il dibattito sul nostro passato da rivalutazi­oni nostalgich­e o da caricature grossolane. La freddezza scientific­a di Melis ci offre un libro che segna una svolta nella storiograf­ia sulla dittatura ed è auspicabil­e che circoli oltre la cerchia degli addetti ai lavori, facendo giustizia di troppe ingannevol­i apologie. Il successo del fascismo fu dovuto a un populismo a tinte nazionalis­tiche, attraverso «una complessa strategia di inclusione tra opposti».

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Guido Melis alla premiazion­e del Viareggio Rèpaci. A destra in alto l’autore
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