Melis e il fascismo Un rigoroso saggio che vince il Repaci
La personalità accentratrice di Mussolini e le spinte centrifughe delle élite italiane La macchina imperfetta del fascismo nel saggio di Guido Melis, vincitore del premio Rèpaci
Guido Melis, a conclusione della sua vasta ricerca (La macchina imperfetta Immagine e realtà dello Stato fascista, pp. 616, € 38, il Mulino, Bologna 2018) riassume i risultati del suo lavoro: «Il fascismo fu fenomeno molto più complesso del regime totalitario che la storiografia si è spesso rappresentata, illudendosi di poterlo racchiudere in quell’aggettivo». Insomma il regime capeggiato da Mussolini fu un totalitarismo dai tratti specifici e per capirne il funzionamento occorre indagare dentro la macchina cogliendone contraddizioni ed eredità, modulazioni territoriali e relazioni interpersonali. Ed è questo suo lavoro, probabilmente che gli è valso il Premio Rèpaci per la sezione saggistica.
La definizione di «macchina imperfetta» fu elaborata da Giaime Pintor nel 1943, quando il regime era alla fine. Con quest’opera, in cui confluiscono anni di appassionato studio, si dà sostanza a quel concetto senza cedere a rozzi revisionismi, ma accordando il primo piano alle fonti, ad uno scrutinio microscopico di quanto realmente accadde nel Partito unico e di ciò che fu deciso dalle varie articolazioni amministrative. Ne vien fuori uno straordinario affresco, che libera il tema da diatribe annose e spesso fuorvianti. La mastodontica opera di Renzo De Felice è imprescindibile e si era già giovata di una massa imponente di documenti, ma era rimasta impigliata — anche per l’uso che ne è stato fatto — entro una visione tutta politica e fortemente personalizzata, a tratti psicologistica. Già Delio Cantimori, proprio introducendo la fatica di De Felice, aveva sottolineato che il fascismo non doveva essere considerato un edificio compatto e uniforme: era necessario scoprirne i movimenti interni, le componenti, le manovre, le volontà che l’avevano segnato. Ebbene: il libro di Melis è la risposta più compiuta a questa indicazione, la più ricca e analitica. Far storia delle istituzioni porta spesso a scambiare la norma per i comportamenti seguiti, collocando in ombra i fattori soggettivi o gli apporti di organismi dotati di qualche loro autonomia. Solo indagando l’estrazione sociale di un ceto dirigente, chiarendo l’eredità culturale che porta con sé, puntando lo sguardo sul modo con cui sa o meno adattare agli eventi imprevedibili i principi giuridici e l’imperativa dottrina che li sostiene si riesce a mettere in evidenza quanto accadde e le funzioni assolte da sedi, associazioni, professioni, mezzi propagandistici. Non è scorretto chiedersi fino a che punto al fascismo si attagli l’aggettivo totalitario. C’è chi non ha esitato a scindere le due categorie, alcuni hanno parlato di un «semitotalitarismo» che non riusciva affatto a governare tutti gli aspetti delle società. Il dualismo impacciato e squilibrato tra monarchia e regime non si può tralasciare. La Chiesa cattolica svolgeva il suo magistero con una limitata libertà d’azione. La proprietà privata non era abolita o perseguitata. Insomma è lecito offrire il quadro di una totalitarismo plurale e proprio per questo capace di catturare consensi anche in strati della popolazione restii a condividerne i fondamenti. L’ambizione totalizzante è fuori discussione, ma è sconsigliabile
Le classi dominanti mostrarono una prevalenza degli elementi di continuità sulle velleità di reale cambiamento
assimilare in un’unica sequenza esperienze antidemocratiche diverse e diversificate, pur presenti contemporaneamente in Europa. Il fascismo fu un sistema complicato, centro motore ne era il duce con le debordanti prerogative che conosciamo, ma insieme non ininfluente fu in ambito economico, ad esempio, la continuità con linee di liberalismo moderato. Eccezionale è in questa pagine l’intreccio tra l’analisi del funzionamento delle istituzioni e il ricorso ad una prosopografia che sfocia in ritratti vivaci e sintetici. Nelle quattro parti in cui il volume si divide — amministrazione, partiti, leggi e istituzioni — si aprono squarci di microstorie che restringono la focale su una personalità per poi riprendere una narrazione dall’alto: panoramica e di magistrale respiro. Bruno Bottai colse nella «sovrapposizione continua di responsabilità e perenne confusione delle parti» uno dei tratti permanenti del regime, destinato a esplodere nella tragedia finale. La struttura delle corporazione servì egregiamente a filtrare gli interessi delle parti e a promuovere accordi di facciata ben accolti.
Nel processo educativo si profilò — annota Melis — un’idea marcatamente totalitaria: «La scuola e il lavoro dovevano costituire un insieme inscindibile capace di cancellare la multisecolare storia della separazione tra ceti intellettuali cosmopoliti, e perciò lontani dalla realtà della nazione, e classi del lavoro manuale, confinate in passato fuori dallo spazio stesso della politica». Ma fino a che punto un tale assunto trovò rispondenza nella pratica? La nazionalizzazione del Paese fu imperfetta. Le élite sociali mostrarono una prevalenza degli elementi di continuità sulle velleità di cambiamento. Lo stesso Consiglio di Sato appariva garante di una fedeltà incrollabile al fascismo, ma anch’esso non era privato di ambigui margini di libertà. Libri come questo contribuiscono non poco a disancorare il dibattito sul nostro passato da rivalutazioni nostalgiche o da caricature grossolane. La freddezza scientifica di Melis ci offre un libro che segna una svolta nella storiografia sulla dittatura ed è auspicabile che circoli oltre la cerchia degli addetti ai lavori, facendo giustizia di troppe ingannevoli apologie. Il successo del fascismo fu dovuto a un populismo a tinte nazionalistiche, attraverso «una complessa strategia di inclusione tra opposti».