RIPARTIRE DALLE CITTÀ
Nella sua intervista di venerdì scorso al Corriere Fiorentino, monsignor Fausto Tardelli, vescovo di Pistoia, paventava un rischio di fronte alle fratture politiche che si fanno evidenti dentro il corpo del cattolicesimo italiano: quello di una dicotomia radicale fra «élite» e popolo. Una distanza alimentata da un senso di autosufficienza delle classi dirigenti che rischiano di non ascoltare e capire le ragioni e le preoccupazioni che sono alla radice del consenso per opzioni politiche centrate sulla chiusura all’altro.
Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati da un modo di affrontare le dinamiche politiche, economiche e sociali che ha alimentato forme di separazione fra la classe dirigente, che è fatta non solo di politici, ma anche di imprenditori, sindacalisti, professionisti, uomini di cultura, docenti e insegnanti, e il Paese nel suo complesso. Si è ignorato, sottovalutato o sfruttato a vantaggio proprio e non della comunità, processi storici come la globalizzazione, la rivoluzione digitale, la crescita demografica. Tutte questioni che sono state presentate come «lontane», collocate sullo sfondo generale ma senza un peso tangibile per la vita delle singole comunità. Proprio la Toscana è stata uno dei luoghi in cui quella attualità storica si è fatta presente e ha travolto tessuti sociali, economici e culturali esistenti. Prato e il suo distretto hanno sperimentato con dieci anni di anticipo sul resto d’Europa gli effetti del vuoto politico nel confrontarsi con l’intreccio fra mercato globale e flussi migratori che è deflagrato poi dal 20082010 in poi. Siena ha visto corrodersi un tessuto civile, prima ancora che economico e finanziario, che ha nel caso del Monte dei Paschi solo l’ultimo stadio di un processo che è passato anche per la crisi della sua università. Gli esiti delle elezioni amministrative dello scorso giugno, letti in questa prospettiva, che è storica e globale a un tempo,rivelano allora ben più di un malessere. Ciascuna delle nostre città vive dinamiche specifiche, ma in tutte si è prodotta una manifesta incapacità delle «élites» di leggere la portata dei mutamenti in atto e di assumersi la responsabilità di governarli con il coraggio necessario, anche a scapito del consenso. Di fronte a questo stato di cose serve allora un ripensamento del ruolo delle classi dirigenti, contro cui oggi si vive una sorta di «rivolta» diffusa.
Il loro ruolo, del resto, resta imprescindibile perché ogni sistema sociale o politico, in un modo o nell’altro, produce la propria classe dirigente. La questione allora è se a partire dai nostri territori e dalle nostre città siamo in grado di dar vita a «élites» democratiche perché aperte al merito e alle competenze e capaci di far crescere la trama civile e governarla in tempi difficili. È infatti nelle realtà che viviamo nel presente sociale e politico, nel vissuto delle nostre città che si deve formare una classe dirigente che sia capace di guardare alle relazioni locali dentro il quadro più ampio delle reti nazionali, europee e internazionali perché è dentro la città che la classe dirigente nasce per poi assumere responsabilità a livelli più ampi. Ed è solo da questo ambito che si può procedere per recuperare quella che è la funzione essenziale che le «élites» dovrebbero svolgere in un contesto democratico: esercitare una dialettica pedagogica coi cittadini mettendo a disposizione cultura e sapere per favorire la maturazione di scelte comuni che non si risolvano in un affidarsi in modo acritico ai potenti del momento.