Debiti a zero e tanta liquidità Così l’azienda non si è fermata
Otto anni vissuti con una spada di Damocle sulla testa. Ma continuando comunque a crescere, investire e assumere. L’inchiesta a carico della famiglia Aleotti — il padre Alberto Sergio e i figli Lucia e Alberto Giovanni — ha riguardato i comportamenti e i patrimoni personali. Ma il riverbero sull’azienda, tipico esempio del capitalismo familiare all’italiana, si è sentito. Il gruppo Menarini è solido, soprattutto molto liquido e senza debiti: nella mancata esposizione con il sistema del credito e nell’abbondante flusso di cassa va ricercata probabilmente la chiave della sopravvivenza di un’azienda coinvolta in un procedimento giudiziario quasi decennale.
Per Menarini il saldo oggi è positivo: nel 2010, al momento del primo sequestro di valori per 1 miliardo e 200 milioni a carico dell’allora presidente Alberto Sergio Aleotti, fatturava tre miliardi di euro; ha chiuso il 2017 con un fatturato superiore per 600 milioni. Nel 2010 i dipendenti erano 12.900, oggi sono oltre 17 mila. «L’azienda è cresciuta — dice Carlo Colombini, membro del Consiglio di amministrazione dall’ottobre scorso — Quelle giudiziarie sono vicende lunghe che in questo caso hanno coinvolto una società non quotata in Borsa, per la quale la famiglia è tutto. Menarini non è morta, ma i procedimenti di questi anni hanno probabilmente provocato un rallentamento all’azienda che avrebbe potuto avere una spinta diversa».