Corriere Fiorentino

«Io cerco di resistere, ma tanti anticipano E vanno nel privato»

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È diventato medico per vocazione. E dal servizio pubblico non se ne vorrebbe mai andare. Eppure il dottor Sergio Gallori, specialist­a del pronto soccorso di Santa Maria Nuova e sindacalis­ta di Cimo, racconta che «la fatica è così tanta che resistere, ogni anno che passa, è sempre più difficile».

Dottor Gallori, se Quota 100 diventasse legge, lei andrebbe in pensione in anticipo? «Ho 57 anni e ho ancora un po’ di tempo davanti a me. In linea di principio vorrei restare più a lungo possibile, credo nel mio lavoro ma vorrei sempre svolgerlo nel migliore dei modi. A volte diventa difficile perché i carichi di lavoro sono pesanti, specialmen­te in un pronto soccorso. E ogni anno che passa, si invecchia e diventa più difficile: per questo ora dico che voglio andare avanti, ma tra 5 anni, se ci fosse Quota 100, chissà, potrei valutare diversamen­te».

I suoi colleghi sono del suo stesso avviso?

«Di rado si festeggia un pensioname­nto: non si fa in tempo, di solito si festeggia chi non ce la fa più e se ne va altrove, nel privato».

Quali sono le vostre maggiori difficoltà? «La mia non è una polemica contro l’azienda, la situazione è generalizz­ata. Noi a Santa Maria Nuova, anche se siamo in 19 sui 20 che dovremmo essere, abbiamo uno degli organici migliori. Ma è dura e la notte, tra pronto soccorso, degenza breve e sub intensiva, due medici arrivano a doversi occupare di 60 pazienti. Lavorando per 12 ore consecutiv­e, magari rischiando di essere aggrediti. E se hai colleghi anziani o malati, giustament­e sono esentati dal fare la notte e tu ti ritrovi a doverne fare di più. E non c’è mai un punto di limite...».

Ovvero?

«Un reparto, quando ha i letti pieni, non accoglie più nessuno. Al pronto soccorso mica puoi mettere il cartello del sold out...».

E quindi molti mollano...

«Per forza, e fa rabbia vedere bravi colleghi che se ne vanno. Specie per chi come me ha deciso di fare il medico per una scelta idealistic­a. Ma si va avanti perché si spera che prima o poi le cose cambierann­o in meglio».

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