DIETRO L’ANGOLO DEL PIDDÌ-PIDDÒ
La sinistra italiana sembra un impero alla vigilia della dissoluzione. Strappi, accuse, spaccature vecchie e nuove. E al centro del sommovimento c’è ovviamente il Pd, anche perché la sinistra-sinistra sembra scomparsa dai radar dopo lo smacco elettorale di Leu nelle politiche del 4 marzo.
Tutto o quasi, ancora una volta, sembra dipendere dalle scelte di Matteo Renzi, che si definisce senatore di Scandicci, tenendo però in scacco il partito di cui è stato segretario. Ne farà ancora parte alle europee della prossima primavera? O nel frattempo avrà fondato un nuovo partito, tutto suo? Questo è l’interrogativo di fronte al quale molti osservatori cercano di dare una risposta. Ma forse c’è dell’altro dietro l’angolo.
Perché Renzi sarebbe così insensibile alla divisione della sua stessa area (e perfino dell’ex «giglio magico») alla vigilia di una nuova discesa in campo? Perché dovrebbe lasciare i suoi liberi di sostenere Zingaretti o Martina nella corsa congressuale o di candidarsi in proprio (Giachetti)? Possibile che, come è stato scritto, l’ex premier voglia giocarsi la partita guardando principalmente all’elettorato che fu di Berlusconi? Si fa fatica a crederlo. Forse il disegno è diverso e prevede tempi lunghi. Anche e soprattutto perché dovrebbe poggiare su due presupposti:
1) il fallimento finale del Pd come fusione tra le diverse culture riformiste e come risposta al mutamento economico-sociale-culturale innescato dalla globalizzazione;
2) la deludente prova di governo dei populisti italiani e la conseguente rottura del contratto gialloverde. A quel punto, con un quadro politico di nuovo scomposto, si aprirebbe lo scenario auspicato da Renzi per riproporsi, non nel ruolo di capo di un partito di medio peso, ma come leader di una nuova stagione di cambiamento che manderebbe in soffitta tutti gli attuali schemi.
Niente scissione del Piddì-Piddò (come lui ha detto l’altra sera a «Porta a Porta» facendo infuriare anche alcuni dei suoi ex fedelissimi), nella mente di Renzi, ma il superamento dell’attuale sistema politico. Non a caso, nell’ultima intervista a «Vanity Fair» l’ex premier si spinge a dire: «Le rivoluzioni durano più che un’elezione, tornerà il nostro tempo». E preannuncia per 2019 una grande campagna contro la plastica, per mettersi in sintonia con l’onda del nuovo ambientalismo che sta avanzando in tutto il mondo, soprattutto tra i giovani.
Una ripartenza coraggiosa o un azzardo? L’ostacolo principale per Renzi è comunque il recupero della sua credibilità personale dopo la repentina caduta. Un altro motivo per non avere fretta.
Intanto lui chiede «a tutti» un’opposizione dura, conferma l’investimento sulla rete dei comitati civici e smentisce qualsiasi progetto di portata nazionale (ma è improbabile che stia studiando il piano di rilancio di Badia a Settimo).
Di certo qualche domanda sulle sue intenzioni se la sta facendo il sindaco Nardella, che per affrontare la sfida della sua rielezione a Palazzo Vecchio dovrà contare soprattutto sulle sue forze (e sulle sue idee), magari beneficiando degli inciampi continui di Lega e M5S sulla pista di Peretola. Ma anche Rossi starà studiando attentamente le mosse dell’ex premier. Perché il governatore tutto può permettersi tranne che consumare l’ultimo spezzone della legislatura regionale come un generale senza neppure un soldato (sull’aeroporto gli ha votato contro anche l’unica consigliera di Mdp). Realisticamente, con un Renzi lanciato verso altre orbite, a Rossi si porrebbe la prospettiva di rientrare nei confini del Pd, che ora soffre le regionali del 2020 come un esercito che è guidato da un generale vestito con un’altra divisa. Vecchi schemi? Ebbene sí, ma non è detto che abbia successo la rivoluzione di Renzi (se mai proverà a farla).