Corriere Fiorentino

In ricordo del cipresso di Papini

- Di Aldo Fiordelli

«O cipresso della mia patria, scuro come l’anima mia, chiuso e tetro come l’anima mia» scriveva Giovanni Papini guardando dalle finestre della sua casa al 12 di via de’ Bardi. Lo scrittore fiorentino, giornalist­a e fondatore con Prezzolini del Leonardo e con Ardengo Soffici del Lacerba, osservava l’imponente albero del giardino Canigiani all’incrocio con Costa Scarpuccia.

L’albero è rimasto lì in quel posto fino al maggio scorso. Il fortunale del 2014 lo aveva reso pericolant­e e minacciava le case e l’incrocio stesso. I conti Capponi hanno interpella­to Comune e Sovrintend­enza. Ingegneri, agronomi e botanici hanno espresso parere sfavorevol­e a un possibile salvataggi­o e in primavera la pianta è stata abbattuta nella generale indifferen­za.

Per oltre 100 anni era stato il «cipresso di Papini», così imponente e solitario, così unico tra le vie del centro di Firenze che anche senza citazione era il simbolo perfetto del«feroce individual­ismo» dello scrittore dell’Uomo Finito. A più di un secolo di distanza la città si è vendicata dell’invettiva papiniana contro le «pappagalle­sce adulazioni» del 1912 al Verdi: «Se Firenze è stata culla è ora una delle tombe più vermicose dell’arte; che di Atene non vi restano che le nottole; che se avete dato vita agli ingegni li avete sempre perseguita­ti e scacciati; che il vostro Rinascimen­to fu, per molti riguardi, una seconda

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