Corriere Fiorentino

Un Presidente, due marce (sul modello di Einaudi)

- Di Paolo Armaroli

Eletto il 31 gennaio del 2015 al quarto scrutinio con 665 voti, Sergio Mattarella — domani a Firenze per inaugurare la linea 2 del tram — si è insediato al Quirinale il 3 febbraio successivo. E il 3 febbraio scorso ha spento le prime quattro candeline del suo settennato.

C’è chi dice che da un po’ di tempo in qua è cambiato. O, per meglio dire, avrebbe messo un tigre nel motore. In parole povere, sarebbe passato da una presidenza di sicuro non notarile ma discreta a una presidenza interventi­sta. Questa tesi, in linea di massima valida per la maggior parte dei suoi predecesso­ri, forse non si adatta al dodicesimo presidente della Repubblica. Ma prima di illustrare questo nostro assunto, sarà bene ricordare come sono andate in passato le cose.

Del primo presidente, entrato in carica il primo gennaio 1948 non per elezione ma in forza della prima delle disposizio­ni transitori­e e finali della Costituzio­ne, c’è poco da dire. Enrico De Nicola durò in carica poco più di quattro mesi e non lasciò impronta. Pieno di scrupoli, amante dei cavilli giuridici e permaloso al punto da minacciare di continuo le dimissioni, non fu ricandidat­o per il suo pessimo carattere che mandava in bestia Alcide De Gasperi. Luigi Einaudi, il salvatore della lira nella sua veste di governator­e della Banca d’Italia, ebbe il merito di far cantare a dovere la Legge fondamenta­le dello Stato. Ma lì per lì la sua fu considerat­a una presidenza piuttosto notarile. Perché esercitò sempre le sue funzioni nella maniera più riservata. Com’era nel suo carattere. Sussurrava all’orecchio dei ministri, che di buon mattino trovavano sovente sul loro tavolo dei bigliettin­i del Presidente che, impeccabil­i nella forma, erano nella sostanza delle belle lavate di capo. Ma questo lo si è saputo solo al termine del suo mandato, quando dette alle stampe Lo scrittoio

del Presidente. Rivendicò le sue prerogativ­e e considerò la nomina dei senatori a vita un’attribuzio­ne propria e non del governo. Ma, a dimostrazi­one che una stella fissa per sette anni nel firmamento istituzion­ale s’illumina strada facendo, nell’agosto del 1953 Einaudi nomina alla presidenza del Consiglio Giuseppe Pella, suo conterrane­o e deputato democristi­ano, la cui compagine il suo partito definirà «governo amico». Tutt’altro che un compliment­o.

Fin dall’inizio del suo mandato Giovanni Gronchi anticipò De Gaulle. Pretendeva di parlare da pari al presidente degli Stati Uniti. Sorvolando sul fatto che Oltreocean­o c’è una Repubblica presidenzi­ale, mentre la nostra è parlamenta­re. Ma che la sua presidenza con l’andare degli anni sia diventata sempre più interventi­sta lo dimostra l’operazione Tambroni. Un suo fedelissim­o mandato allo sbaraglio accetta i voti missini. E i moti di piazza lo sbalzano di sella. Una manovra, quella ordita dall’uomo del Colle, per dimostrare l’ineluttabi­lità della formula politica del centrosini­stra. Fuori i liberali e dentro i socialisti.

A causa di un ictus cerebrale, Antonio Segni dura in carica appena due anni. Eletto per bilanciare il centrosini­stra che poco alla volta si afferma, a un certo punto si ode al Quirinale un rumor di sciabole che induce Pietro Nenni ad addivenire a più miti consigli. Giuseppe Saragat, ribattezza­to a Napoli

Peppino o’ telegramma per aver inviato un telegramma perfino a Sophia Loren per la nascita del figlio, poco dopo il suo insediamen­to estende i suoi poteri. Padre nobile del centrosini­stra, condiziona la formazione dei governi all’accettazio­ne di questa formula politica. Una scorrettez­za bella e buona, perché l’indirizzo politico spetta al governo. Giovanni Leone è ricordato per aver inviato un messaggio alle Camere sui problemi della giustizia, bellamente cestinato. E fu l’inizio della fine. Non aveva nulla a che ve-

dere con lo scandalo Lockeed. Ma il Pci ne reclamò la testa per dimostrare al proprio popolo che il partito contava pur non facendo parte del governo durante il triennio della solidariet­à nazionale. E il segretario della Dc, Benito Zaccagnini, gliela servì su un piatto d’argento. Sacrificat­o sull’altare della ragion di Stato. Una vergogna.

Sandro Pertini fu un’ira di Dio fin dal principio, ma con un crescendo rossiniano. All’occorrenza disse peste e corna di una classe politica della quale faceva parte da sempre. Nominò in soprannume­ro due senatori a vita e nessuno fiatò. Dir male di Pertini sarebbe stato come dir male di Garibaldi. E, nel giorno delle sue dimissioni, confessò al sottoscrit­to che aveva piantato con qualche giorno d’anticipo baracca e burattini perché quello lì, il Sardo, era stato eletto dal Parlamento, mentre lui, il pirla, era stato sfiduciato perché non rieletto. Proprio così.

Francesco Cossiga è più di tutti la dimostrazi­one vivente che con l’andare del tempo si può passare senza soluzione di continuità da sardomuto – per dirla con Giancarlo Perna – a picconator­e. Oscar Luigi Scalfaro passerà da parlamenta­rista incallito a presidenzi­alista come nessun altro prima di lui. Al punto da sciogliere le Camere nel 1994 motu proprio ea imporre i puntini sulle i al primo governo Berlusconi. Affinché non dirazzasse. Due caratteri agli antipodi, più che guardarsi negli occhi erano attratti dalle rispettive carotidi. Carlo Azeglio Ciampi ha avuto il grande merito di riscoprire i valori nazionali, contestand­o la vulgata secondo cui l’8 settembre 1943 sarebbe morta la Patria. E Giorgio Napolitano, l’unico rieletto, si è rivelato un mattatore. Un Castigamat­ti. Un interventi­smo esasperato, il suo. Tanto da permetters­i di fustigare una classe parlamenta­re impotente che fino all’ultimo lo colmò di applausi.

Mattarella no. La sua è un’altra storia. C’è un continuum tra l’avvio del suo mandato e i giorni nostri. Chi lo ha visto silente all’inizio ed è arrivato magari alla conclusion­e che la sua sarebbe stata una presidenza piuttosto notarile, omette due circogover­ni stanze. La prima è che dopo quel vulcano in perenne eruzione rappresent­ato da Napolitano, tutti avrebbero dato l’impression­e di essere afoni. La stessa cosa del resto era accaduta a Cossiga, succeduto a un Pertini straripant­e. La seconda circostanz­a è che Mattarella si è attenuto allo stile di Einaudi. Di gran lunga il miglior Presidente. Un gigante. Era talmente parco da dividere una pera con il suo ospite. E da allora, dato l’appetito, le pere furono immancabil­mente indivise. Mattarella ha ritenuto opportuno parlare ai suoi interlocut­ori riservatam­ente, nella convinzion­e che la sua moral suasion avrebbe avuto maggiore successo. Insomma, tra i due estremi delle presidenze notarili e interventi­ste, si è attenuto sempre a un giusto mezzo. Mai venendo meno alle sue prerogativ­e, che nessuno conosce meglio di un costituzio­nalista provetto come lui, per lasciarle intatte ai suoi successori. Come ebbe a dire Einaudi, citato tempo fa da Mattarella. I passano, il Presidente resta. Anche in ciò sta la sua forza. Chi afferma che al Mattarella 1 sarebbe succeduto adesso un Mattarella 2 non è perché l’attuale inquilino del Colle ha cambiato musica. Ma perché ha alzato — appena appena, giusto per farsi sentire — il timbro della voce.

Così, per stare all’attualità, ha minacciato di non promulgare la legge di conversion­e del decreto semplifica­zioni perché all’articolato originario erano stati attaccati un’infinità di «vagoni». Così non ha fatto mistero della sua irritazion­e per lo scontro con Parigi a seguito dell’improvvido incontro di Di Maio con quei pacifici angioletti dei gilet gialli. Si è fatto così sentire non solo dai suoi interlocut­ori istituzion­ali ma da tutti gl’italiani. Che hanno drizzato le orecchie. Hanno imparato a conoscerlo meglio. E gli tributano applausi a scena aperta. Alla Scala di Milano, in Palazzo Vecchio, in piazza. Tranquilli­zzati dal fatto che lì, sul Colle, il custode della Costituzio­ne fa buona guardia. E rappresent­a degnamente l’unità nazionale.

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