Corriere Fiorentino

I 4 torrenti che scorrono sotto il Campo di Marte

- Di Paolo Ciampi

Campo di Marte, dunque.

E io che scalpito per dichiararm­i campomarti­no. Tra i pochi, perché decisament­e non usa. Sto percorrend­o il viale dei Mille, una lunga linea retta che corre parallela alla ferrovia, direzione stadio. Ancora distante da ciò che sta dentro le guide turistiche, dalla Firenze che si viene a vedere. E penso di nuovo a te, caro editore. Forse ti aspettavi qualche consideraz­ione su Palazzo Vecchio o una visita agli Uffizi. Invece me la prendo comoda lungo questa via. E i luoghi sono altri, luoghi a me cari. Per esempio il Castaldini, la pasticceri­a che mi evoca le pizzette e i bignè dei miei compleanni. L’Ora Blu, la libreria dove mi capita di sostare per quattro chiacchier­e alla fine della giornata. Il Badiani, la gelateria che mi concederei più spesso, se dessi retta alla mia gola. Che poi sembra faccia pubblicità, però anche questa è storia. Dici Badiani, dici tutte le innumerevo­li gelaterie di Firenze, tanto ce n’è una a ogni angolo, ma mai che venga in mente che Firenze il gelato se l’è inventato. Non mi pare meno

importante di aver dato il nome America all’America. Per lo meno il gelato come lo conosciamo oggi. Un’altra meraviglia alla corte dei Medici. Si narra che sia stato Bernardo Buontalent­i, architetto del Granduca, bravo anche a organizzar­e banchetti e fuochi di artificio. Un giorno per stupire gli ospiti inviati dal re di Spagna fece servire una sorta di crema ghiacciata, cui aveva aggiunto una spezia appena arrivata dal Nuovo Mondo, la vaniglia. In seguito Caterina de’ Medici, regina di Francia, si portò a Parigi la ricetta e i pasticceri. Negli anni Sessanta del secolo scorso, più o meno negli stessi anni in cui la Fiorentina conquistav­a il suo secondo scudetto, a pochi passi dallo stadio la gelateria Badiani vinceva un concorso, indetto per ricordare l’architetto dei Medici. Era nato il gusto Buontalent­i, panna a volontà e delizia: ne sono orgoglioso, più che per il lampredott­o. Vedi, caro editore, quante storie anche passeggian­do per Campo di Marte?

Non tenermi il broncio perché son partito da lontano, invece che girellare tra il Duomo e piazza della Signoria. Le città, lo sai anche tu, sono come certe persone, vanno giudicate dai dettagli, dai margini, da ciò che sta lontano dalle bocche e dai cuori. Vado avanti. Dei quattro torrenti che un tempo solcavano il mio quartiere ormai si vede solo un tratto dell’Affrico: ed è un altro dei luoghi di Boccaccio. Il resto è stato tutto interrato, oggi si direbbe tombato, al tempo delle smanie cementizie. C’è molta acqua sotto i piedi, ma stamani i pensieri più che intorno all’acqua ronzano intorno al quartiere qual era. O meglio intorno al quartiere che non c’era. Perché prima dell’Unità qui c’era ben poco. Campo di Marte, un piccolo mondo antico che di suo non possedeva nemmeno il nome. Non come Coverciano, poco più avanti, che pare si chiami così per via di un agricoltor­e dell’epoca di Roma imperiale. Secoli prima che Aldo Palazzesch­i ci ambientass­e le Sorelle Materassi e che si insediasse il centro tecnico della nazionale di calcio. Campo di Marte era acquitrini e campi, casolari di contadini, scorci di paesaggio toscano per i pittori macchiaiol­i. Firenze era distante, qui si veniva persino in villeggiat­ura, per sopportare meglio i calori dell’estate. In qualche famiglia fiorentina, incredibil­e, questo si tramanda ancora. Sarei curioso di sapere chi è stato l’ultimo villeggian­te. Però poi Campo di Marte diventò Campo di Marte: la piazza d’armi, lo spazio delle esercitazi­oni militari. Più tardi anche il quartiere dello sport: e non credo sia casuale, visto che lo sport prima di essere tale era disciplina militare. Tiro, equitazion­e, scherma. Si cominciò con le gare di pallone col bracciale, ma presto fu il calcio il grande protagonis­ta. All’inizio del Novecento qui mosse qualche timido passo una società il cui nome suona come una bestemmia, l’ossimoro calcistico per eccellenza: la Juventus Fiorentina. Stessa città, per dire, dove oggi i genitori mettono addosso ai figliolett­i magliette viola che dello spirito olimpico serbano assai poco: per fortuna non son nato gobbo. Un giorno ci sarà lo stadio, che è il mio stadio, lo stadio accanto ai giardini dove sognavo di diventare un campione con quella maglia, lo stadio che non sarà all’inglese, ma è comunque un’opera d’arte, architettu­ra ardita e tutelata. Con tutto quello che c’è intorno, perché non c’è un altro stadio così, che quando sollevi gli occhi al cielo, dopo un palo o un rigore sbagliato, c’è la vista dei monti a consolarti. Curva Fiesole, appunto. Un giorno ci saranno il campo da rugby, il palasport per il basket e la pallavolo, l’impianto del baseball, lo stadio di atletica. Più una piscina intitolata a Paolo Costoli, tra i morti nei cieli di Brema della nazionale azzurra di nuoto. Era il 1966 — anno sciagurato — e se c’è questa piscina è proprio per quello che accadde qualche mese dopo. L’alluvione, sì, l’alluvione. Ferita ma di nuovo in piedi, Firenze lanciò l’idea di ospitare le Olimpiadi del 1976. Un modo per ringraziar­e gli angeli del fango e per sancire che Firenze era ancora Firenze, piegata ma non spezzata. La candidatur­a fu accolta con favore, fu Firenze stessa che la ritirò, spaventata dall’impresa. I Giochi si disputaron­o in un altro continente, a Montreal. Questa piscina è ciò che avanza delle mie Olimpiadi sotto casa. C’è altro? Certo che c’è altro ...

3. Continua

Il brano è tratto da «Gli occhi di Firenze» di Paolo Ciampi (Bottega Errante Edizioni, 2019, pagine 246, prezzo 14 euro, illustrazi­oni di Elisabetta Damiani, Collana «Le città invisibili», www.bottegaerr­anteedizio­ni.it).

❞ Tombati Dei quattro torrenti che solcavano il mio quartiere ormai si vede solo un tratto dell’Affrico

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