Il cambio di visuale, in Santissima Annunziata
È rigorosamente in piedi che ci si cimenta col panino al lampredotto, caro editore, però dopo è un altro discorso. Soprattutto se lo si è innaffiato con generoso vinello, che ci sta come il formaggio con le pere, però poi piega le gambe. Un gotto di vino e poi un altro. E ora, ecco, il passo del mattino è una pretesa. Ovvio che non sia solo stanchezza. Mi trascino per un pezzetto, ma ho voglia di sedermi e so dove farlo. Sotto questo loggiato. In anni distanti ritirarsi su questi gradini era un modo di ritirarsi a lato, intendo a lato sia della vita che della città. Ovvio che i ricordi scivolino come un ballo lento sul finire della festa. Riacciuffo immagini sbiadite di appuntamenti da liceale dopo aver saltato la scuola: o come piuttosto si dice, sotto questo cielo, dopo aver fatto forca. Guccini e Battisti strimpellati alla chitarra, addirittura qualche timido bacio. Gli ultimi ritocchi agli striscioni per le manifestazioni. «Sai dove comincia il corteo?» c’era chi domandava una volta. Ora adoperano il lei e fanno altre domande. «Scusi, dov’è il Davide di Michelangelo?». Che tra l’altro non ho mai capito perché il turista che punta al David di Michelangelo finisca sempre da qualche altra parte. Mannaggia, caro editore. Con questa storia mi hai costretto a una doccia di malinconia. Vedi cosa può smuovere una giornata a piedi nella mia città. Nemmeno mi fossi inoltrato dentro una mia personale riduzione dell’Ulisse di Joyce: una sola giornata per un vagabondaggio che ignoro dove condurrà. Tortuosi giri di passi e parole che alla fine sembra abbraccino tutto. Confronto, ne convengo, che solo ad accennarlo mi ricopre di ridicolo. Però per una circostanza almeno posso reputarmi la brutta copia di Leopold Bloom, l’Odisseo irlandese alle prese con tradimenti e discutibili orizzonti. Mr Leopold Bloom mangiava con gran gusto le interiora di animali e volatili... È con queste parole che Joyce ce lo introduce. E non ho dubbi, qualcosa ho dimostrato anch’io, dal trippaio di Sant’Ambrogio. Vedi, caro editore, a non esserci parlati meglio prima? Sull’Ulisse ci si poteva marciare. Magari rimandando questa mia camminata, visto che mancano solo pochi giorni al 16 giugno: sgoccioli di primavera per un Bloomsday festeggiato anche qui, mica solo a Dublino. Leopold Bloom a Firenze, ne ho sentite di peggio. E tu, caro editore, non stare a sottilizzare. Con tutti gli scrittori che hanno sgomitato per vivere qui, è vero, di James Joyce non ho traccia. Il suo nome semmai mi richiama un bel pub dove è bello far sosta per una Guinness, scendendo per i Lungarni. Però, dai, quel vinello generoso sta scatenando diverse cose. Piazza Santissima Annunziata. I porticati che corrono su tre lati, mentre sul quarto due palazzi gemelli indirizzano lo sguardo verso via dei Servi e il Cupolone. Geometria al servizio della bellezza. Linee nette fuori, confusione in testa. Dicono che è proprio a Firenze, nel Quattrocento, che cambia la maniera di vedere. Non più quella degli antichi, ma un’altra, per noi così normale da sembrare naturale. Come le mappe orientate a nord, a cui siamo così abituati che prenderemmo per matto chi salti su per piazzare il sud o l’est dove ora è il nord. Ora si comincia a vedere — e a rappresentare — in funzione della distanza. Con la prospettiva. Meglio: con la prospettiva alla fiorentina. Che dire, caro editore, non potrei tirarmela, da buon fiorentino? Avevo cominciato parlando di sguardi ed ecco dove sono arrivato. Alla città che non si contenta di mostrarsi allo sguardo, ma che lo sguardo se l’è inventato. Magari esercitandosi proprio qui, in questa piazza. Mi sa che saprei convincere anche Leopold Bloom, dopo un paio di pinte. Nel caso potrei indossare i panni di Stephen Dedalus, l’altro personaggio del vecchio James: l’artista da giovane, poesia e bordelli, rimorsi e canti. Dedalus, poi. Come Dedalo, il leggendario architetto costruttore del labirinto di Creta per il re Minosse. E sarà il vino bevuto, ancora, ma ho l’impressione che anche questo mio cammino per Firenze abbia qualcosa a che vedere con il labirinto. Cosa sto combinando, in effetti? Come in ogni labirinto punto al centro, meta del mio vagabondare. Però non ho idea di dove sia, forse non lo raggiungerò mai. Come per ogni labirinto, se più mi avvicinerò sarà solo per allontanarmi, fino a smettere per esaurimento delle forze. Firenze, città labirinto senza un filo di Arianna per uscirne: e non che mi dispiaccia.
9. Continua
Il brano è tratto da «Gli occhi di Firenze» di Paolo Ciampi (Bottega Errante Edizioni, 2019, pagine 246, prezzo 14 euro, illustrazioni di Elisabetta Damiani, Collana «Le città invisibili», www.bottegaerranteedizioni.it)