Corriere Fiorentino

La poesia delle Giubbe Rosse con Montale, Lenin e gli altri

- Di Paolo Ciampi

Sai, caro editore, più volte ho provato a immaginarm­i quella Firenze, che non era solo di bordelli, vinai, avanzi di galera. Però non mi riesce (...). Di questa Firenze no, non c’è niente. Appena qualche avanzo al lapidario di San Marco e in qualche altro museo. Appena le foto dei Fratelli Alinari, i loro bianchi e neri che sono testimonia­nza e rimpianto per questa e molta altra Italia (...). Appena i quadri di un grande tra i macchiaiol­i, Telemaco Signorini, che durante la demolizion­e dipingeva con foga e piangeva. «Telemaco» gli domandò un ingegnere comunale, «piangi sulle porcherie che vanno giù?». «No» fece lui, «piango sulle porcherie che vengono su». Che poi tanto porcherie non mi sembrano, però è eguale. Malgrado tutto, piazza della Repubblica non mi dispiace: concede tregua dopo tanta calca, lascia che lo sguardo si allunghi, con i suoi palazzi regala un certo sentimento del tempo, ambizione e signorilit­à di un’altra Firenze. C’è anche tanta letteratur­a in questa piazza: cosa che con me funziona sempre. Ci hanno

scritto libri interi su quanti hanno affollato questi caffè. Spesso cattivi clienti, capaci di farsi bastare un bicchiere in una serata di appunti e discorsi (...). Le Giubbe Rosse, quasi un mito. Immagina come era un tempo, con le grandi vetrate sormontate da un angioletto che tracannava birra e i camerieri in smoking rosso fiamma, secondo la moda di Vienna. Per questo per tutti sono le Giubbe Rosse, anche se in realtà l’insegna che spiccava all’ingresso era Reininghau­s. Fabbricant­i di birra tedeschi. Come dall’altra parte della piazza, Paszkowski, dell’omonima birreria polacca. Impossibil­e da pronunciar­e, tanto che Francesco Nuti ne risistemò il nome per un suo film: Caruso Pascoski di padre polacco. Dici Giubbe Rosse e dici i futuristi che scacciaron­o il circolo dei poveri scacchisti per tenere banco loro: e non era esattament­e la stessa cosa. Dici Giovanni Papini e Ardengo Soffici e anche Dino Campana, che proprio qui venne a incontrarl­i. Dici una rivista come Lacerba e i tanti artisti che decisero di partire per le trincee come fosse un gioco o un palcosceni­co. Dici perfino Lenin, che non era un artista, ma insomma, sempre Lenin era, e una volta passò di qua per giocare a scacchi: almeno questo andava ripetendo uno dei camerieri, Cesare, che ne era particolar­mente orgoglioso. Anche dopo, sotto il fascismo, era qui che ci si ritrovava. Per che cosa questo piccolo borghese di caffè sia diventato così indispensa­bile alla vita dei letterati e degli artisti fiorentini non so. Così scriveva un perplesso Elio Vittorini nel 1932. Eppure era a questi tavolini che veniva a sedersi Carlo Emilio Gadda. Oppure Tommaso Landolfi, l’uomo che organizzav­a i suoi disastri, per dirla con Cesare Garboli, nel tempo lasciato libero dalle bische e da altri caffè. O anche Mario Luzi, un poeta che sarà bene non dimenticar­e. E soprattutt­o Eugenio Montale, ci pensi, Eugenio Montale: si

imparano ancora i suoi versi a scuola? Era un cliente abituale, Montale. Alle Giubbe Rosse si faceva addirittur­a indirizzar­e la posta. Fa effetto, no? Il Nobel per la letteratur­a, il poeta di Non chiederci la parola e di Meriggiare pallido e

assorto. A volte faccio fatica a convincerm­i che un poeta così corrispond­a a una vita davvero vissuta. E nel caso di Montale lo presumo nella sua Genova, il mare davanti e le montagne alle spalle. Oppure a Milano, in Galleria se non alla redazione del Corriere

della Sera. Mia ignoranza, certo. A Firenze invece Montale si presenta già nel 1927, due anni dopo aver pubblicato Ossi di seppia, assunto dall’editore Bemporad. L’anno dopo diventa direttore del Gabinetto Vieusseux, una delle grandi istituzion­i culturali di Firenze. La cosa singolare è che non è iscritto al partito fascista, quasi il regime al momento si preoccupas­se di non dimostrars­i troppo regime. In quel posto durerà fino al 1938, lo stesso anno delle leggi razziali. Ho trovato il primo impiego stabile della mia vita perché non ero fascista e l’ho perso dieci anni dopo per la stessa ragione. Così dirà un giorno: e dieci anni sono tanti. Firenze sarà anche la casa di Drusilla, la sua donna di sempre. Sarà l’incontro con Irma, docente e critica letteraria, passione travolgent­e, fonte di ispirazion­e, tentazione di America e di un’altra possibilit­à. Sarà la guerra e gli amici in clandestin­ità ospitati durante l’occupazion­e, gente come Carlo Levi e Umberto Saba. Sarà il piccolo cimitero alle porte di Firenze dove oggi riposa: a San Felice a Ema. Per me, però, Montale è soprattutt­o le Giubbe Rosse. Rammento una foto di gruppo, ai tavolini fuori. Lui è seduto al centro, una sigaretta tra le dita, la testa chissà dove. Mi illudo che qualche pensiero lo dedichi anche a questa piazza e che la piazza gli restituisc­a parole per la sua poesia. Vedrai, caro editore, qualcuno gli avrà pur raccontato di ciò che c’era prima, del mercato, del ghetto, dei disastri provocati per ansia di nuovo, per smania di pulizia. Talvolta, vedrai, avrà fatto per alzarsi e salutare: qualche passo ancora, prima di tornare a casa. Giusto per constatare la bellezza di Firenze, questa bellezza malgrado tutto. Perché è così bella, Firenze, ma figurarsi cosa sarebbe senza le mura abbattute, il cuore antico demolito, le mine dei nazisti. A volte, è incredibil­e, le parole riescono a resistere più delle pietre. A volte sanno persino diventare il posto che ci accoglie, la casa per la casa che non c’è più. Diventare piazza, come noi stessi lo siamo a volte.

Il brano è tratto da «Gli occhi di Firenze» di Paolo Ciampi (Bottega Errante Edizioni, 2019, pagine 246, prezzo 14 euro, illustrazi­oni di Elisabetta Damiani, Collana «Le città invisibili», www.bottegaerr­anteedizio­ni.

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Le Giubbe Rosse negli anni Trenta

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