Un biologo fiorentino scopre una cura per statue e marmo
La notte dei ricercatori Si chiama «bacillus subtilis» e può guarire il marmo delle statue Il biologo Marvasi lo presenterà domani al Maggio: «È un po’ l’enterogermina del bello»
Sul Ratto delle Sabine La statua della Loggia dei Lanzi si potrebbe trattare con questa tecnica per eliminare i funghi che la stanno aggredendo
Bravo, buono, (ma caro) Bacillus subtilis. Chi l’ha detto che i batteri sono brutti e cattivi e trasmettono solo malattie? Lui è diverso. Anzi lavora al contrario rispetto ai suoi simili: è il batterio «che cura». Non noi, non gli esseri umani. Ma i beni culturali: statue, chiese, palazzi. Cura il marmo innanzitutto. L’unico suo difetto è che si fa pagare molto salato per i suoi servizi: quattro mesi di coltivazioni quotidiane, di litri e litri al giorno, per aggredire un metro quadrato di marmo malato. Produrlo in laboratorio ha dei costi impressionanti. Perché il bacillus è debole, mingherlino. Non ce la fa con le sue forze a sobbarcarsi tutto il lavoro. Ed è per questo che al dipartimento di Biologia dell’Università di Firenze gli hanno messo su una «palestra» dove sudare e farsi «i muscoli» per aumentare la capacità di aggredire i problemi.
È questo che fa ogni giorno, nel suo laboratorio al Polo di Sesto, il ricercatore Massimiliano Marvasi insieme alla collega Brunella Perito, nel team del professor Giorgio Mastromei. Massimiliano parlerà del lavoro di questo team di microbiologi che mira a salvare in modo «naturale» i beni culturali dai danni provocati dal tempo — tra gli altri e in prima istanza — nel Duomo di Firenze e sul Ratto delle Sabine del Giambologna. Lo farà durante uno degli appuntamenti della «Notte dei ricercatori»: domani alle 16.30 al Teatro del Maggio Musicale. Durante la sua conferenza affronterà due casi che dimostrano come recenti studi di geomicrobiologia hanno permesso di consolidare opere lapidee usando i batteri attraverso la precipitazione di carbonato di calcio direttamente nella micro-degradazione.
Ci lavorano da 15 anni, grazie a un progetto europeo, da quando Massimiliano era in tesi. Finora «per restaurare le pietre si sono sempre usate le colle — premette il quarantaduenne biologo fiorentino — Ottime colle. Ma la colla è una plastica e mi chiedo: siamo sicuri di voler immettere della plastica nel Ratto delle Sabine? Le colle ingialliscono negli anni, il processo si chiama fotodegradazione. Perdono trasparenza. E non permettono il passaggio dell’umidità mentre la pietra deve traspirare per mantenere intatta la struttura».
Per questo al dipartimento di Biologia si sono messi in testa di cercare altrove la soluzione. L’hanno individuata nel 2004 quando ancora il laboratorio si trovava alla Specola. Sei anni di studi e nel 2010 hanno prodotto la prima pubblicazione: il batterio funziona, ma non basta. E infatti hanno impiegato gli ultimi nove anni a cercare di renderlo «sostenibile» da poterlo applicare come normale strumento per il restauro e la conservazione dei beni culturali. «Abbiamo cercato i batteri, i più “buoni” possibili. In nessun modo patogeni, anzi sono proprio quelli che ci beviamo quando assumiamo l’enterogermina. Non fanno male a nessuno, sono batteri pacifici e tranquilli». E soprattutto hanno questa capacità unica di «precipitare piccoli cristalli simili al marmo» che «quasi fanno essi stessi delle nuove pietre». Come il Bacillus subtilis opera sul marmo, così lo Pseudomonas stutzeri lavora sulle superfici affrescate. Ogni opera d’arte ha il suo batterio salvatore.
Il parametro di riferimento siamo noi: la costruzione del tessuto osseo. O le galline: nel momento in cui «fanno l’uovo». «Anche quelli sono minerali, pietre, li produciamo noi con l’organismo — spiega — Un po’ come i calcoli renali. È una proprietà della natura normalissima. E non è strano che possano farlo anche i batteri».
Li hanno sperimentati nella cinquecentesca Chiesa di Angera, a Varese, e lì hanno scoperto due cose: che i batteri funzionano, nel senso che riparano la pietra senza lasciare decolorazioni e macchie, ma anche che la produzione di cristalli di cui sono capaci è troppo debole da essere efficace senza un potenziamento. Servono steroidi per batteri insomma. «Dal 2010 abbiamo iniziato a far fare training ai batteri, trovare ceppi che producessero di più. È stato come mandarli in palestra e selezionare i migliori. Ne abbiamo trovati alcuni, abbiamo capito meglio il meccanismo, ma continuiamo a cercare». In questo momento della ricerca sono nella fase di «comprensione dei meccanismi di precipitazione» e del «consolidamento delle pietre». Capire un meccanismo microbico è sempre «un lavoro lungo, di anni». Perché si tratta di «meccanismi nuovi, mai studiati a fondo. E dipendono moltissimo dall’ambiente in cui il batterio si trova: per esempio il nostro lavora bene quando trova alte concentrazione di co2 e calcio». La spiega con una metafora: «È come quando ti accorgi che il tuo braccio non basta per compiere un’azione, e ti costruisci un braccio ex novo».
A Firenze i campi principali di lavoro sono due: il Ratto delle Sabine del Giambologna che presenta «puntini neri che si vedono solo molto da vicino e anno dopo anno si allargano, motivo per cui ci è venuta l’idea è che fosse qualcosa di vivo». E avevano ragione: sono «funghi che contengono melanina» e che, se fossero distrutti, lascerebbero «macchie gialle sulla superficie della statua». Il secondo è il Duomo, dove lavora Brunella Perito, e che ha «vari problemi di patine che stiamo provando a rimuovere con molecole e olii naturali». La battaglia batteriologica è appena cominciata.