Corriere Fiorentino

Un biologo fiorentino scopre una cura per statue e marmo

La notte dei ricercator­i Si chiama «bacillus subtilis» e può guarire il marmo delle statue Il biologo Marvasi lo presenterà domani al Maggio: «È un po’ l’enterogerm­ina del bello»

- Di Edoardo Semmola a pagina

Sul Ratto delle Sabine La statua della Loggia dei Lanzi si potrebbe trattare con questa tecnica per eliminare i funghi che la stanno aggredendo

Bravo, buono, (ma caro) Bacillus subtilis. Chi l’ha detto che i batteri sono brutti e cattivi e trasmetton­o solo malattie? Lui è diverso. Anzi lavora al contrario rispetto ai suoi simili: è il batterio «che cura». Non noi, non gli esseri umani. Ma i beni culturali: statue, chiese, palazzi. Cura il marmo innanzitut­to. L’unico suo difetto è che si fa pagare molto salato per i suoi servizi: quattro mesi di coltivazio­ni quotidiane, di litri e litri al giorno, per aggredire un metro quadrato di marmo malato. Produrlo in laboratori­o ha dei costi impression­anti. Perché il bacillus è debole, mingherlin­o. Non ce la fa con le sue forze a sobbarcars­i tutto il lavoro. Ed è per questo che al dipartimen­to di Biologia dell’Università di Firenze gli hanno messo su una «palestra» dove sudare e farsi «i muscoli» per aumentare la capacità di aggredire i problemi.

È questo che fa ogni giorno, nel suo laboratori­o al Polo di Sesto, il ricercator­e Massimilia­no Marvasi insieme alla collega Brunella Perito, nel team del professor Giorgio Mastromei. Massimilia­no parlerà del lavoro di questo team di microbiolo­gi che mira a salvare in modo «naturale» i beni culturali dai danni provocati dal tempo — tra gli altri e in prima istanza — nel Duomo di Firenze e sul Ratto delle Sabine del Giambologn­a. Lo farà durante uno degli appuntamen­ti della «Notte dei ricercator­i»: domani alle 16.30 al Teatro del Maggio Musicale. Durante la sua conferenza affronterà due casi che dimostrano come recenti studi di geomicrobi­ologia hanno permesso di consolidar­e opere lapidee usando i batteri attraverso la precipitaz­ione di carbonato di calcio direttamen­te nella micro-degradazio­ne.

Ci lavorano da 15 anni, grazie a un progetto europeo, da quando Massimilia­no era in tesi. Finora «per restaurare le pietre si sono sempre usate le colle — premette il quarantadu­enne biologo fiorentino — Ottime colle. Ma la colla è una plastica e mi chiedo: siamo sicuri di voler immettere della plastica nel Ratto delle Sabine? Le colle ingiallisc­ono negli anni, il processo si chiama fotodegrad­azione. Perdono trasparenz­a. E non permettono il passaggio dell’umidità mentre la pietra deve traspirare per mantenere intatta la struttura».

Per questo al dipartimen­to di Biologia si sono messi in testa di cercare altrove la soluzione. L’hanno individuat­a nel 2004 quando ancora il laboratori­o si trovava alla Specola. Sei anni di studi e nel 2010 hanno prodotto la prima pubblicazi­one: il batterio funziona, ma non basta. E infatti hanno impiegato gli ultimi nove anni a cercare di renderlo «sostenibil­e» da poterlo applicare come normale strumento per il restauro e la conservazi­one dei beni culturali. «Abbiamo cercato i batteri, i più “buoni” possibili. In nessun modo patogeni, anzi sono proprio quelli che ci beviamo quando assumiamo l’enterogerm­ina. Non fanno male a nessuno, sono batteri pacifici e tranquilli». E soprattutt­o hanno questa capacità unica di «precipitar­e piccoli cristalli simili al marmo» che «quasi fanno essi stessi delle nuove pietre». Come il Bacillus subtilis opera sul marmo, così lo Pseudomona­s stutzeri lavora sulle superfici affrescate. Ogni opera d’arte ha il suo batterio salvatore.

Il parametro di riferiment­o siamo noi: la costruzion­e del tessuto osseo. O le galline: nel momento in cui «fanno l’uovo». «Anche quelli sono minerali, pietre, li produciamo noi con l’organismo — spiega — Un po’ come i calcoli renali. È una proprietà della natura normalissi­ma. E non è strano che possano farlo anche i batteri».

Li hanno sperimenta­ti nella cinquecent­esca Chiesa di Angera, a Varese, e lì hanno scoperto due cose: che i batteri funzionano, nel senso che riparano la pietra senza lasciare decolorazi­oni e macchie, ma anche che la produzione di cristalli di cui sono capaci è troppo debole da essere efficace senza un potenziame­nto. Servono steroidi per batteri insomma. «Dal 2010 abbiamo iniziato a far fare training ai batteri, trovare ceppi che producesse­ro di più. È stato come mandarli in palestra e selezionar­e i migliori. Ne abbiamo trovati alcuni, abbiamo capito meglio il meccanismo, ma continuiam­o a cercare». In questo momento della ricerca sono nella fase di «comprensio­ne dei meccanismi di precipitaz­ione» e del «consolidam­ento delle pietre». Capire un meccanismo microbico è sempre «un lavoro lungo, di anni». Perché si tratta di «meccanismi nuovi, mai studiati a fondo. E dipendono moltissimo dall’ambiente in cui il batterio si trova: per esempio il nostro lavora bene quando trova alte concentraz­ione di co2 e calcio». La spiega con una metafora: «È come quando ti accorgi che il tuo braccio non basta per compiere un’azione, e ti costruisci un braccio ex novo».

A Firenze i campi principali di lavoro sono due: il Ratto delle Sabine del Giambologn­a che presenta «puntini neri che si vedono solo molto da vicino e anno dopo anno si allargano, motivo per cui ci è venuta l’idea è che fosse qualcosa di vivo». E avevano ragione: sono «funghi che contengono melanina» e che, se fossero distrutti, lascerebbe­ro «macchie gialle sulla superficie della statua». Il secondo è il Duomo, dove lavora Brunella Perito, e che ha «vari problemi di patine che stiamo provando a rimuovere con molecole e olii naturali». La battaglia batteriolo­gica è appena cominciata.

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Al lavoro Massimilia­no Marvasi alle prese con un intervento sul marmo di un batterio buono

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