Corriere Fiorentino

Aiolli e la volata mondiale di Gimondi, nel bar sport

Lo scrittore Valerio Aiolli e il trionfo del campione italiano ai Mondiali «Avevo 12 anni, mi resi conto che non ci sono imprese impossibil­i»

- Di Edoardo Semmola

Quel bar buio e angusto se lo ricorda bene: le sedie in ferro che lasciano il segno sulle natiche e la television­e abborracci­ata su un trespolo, il finestrone che getta lo sguardo sulla valle vuota e quegli omoni grandi e grossi tutto intorno, con gli occhi abbacinati dallo schermo.

Valerio Aiolli non ricorda però dove si trovasse di preciso in quel 2 settembre 1973 mentre Felice Gimondi a Barcellona correva — e vinceva — il suo Campionato del mondo. Poteva essere Abbadia San Salvatore. Oppure Piancastag­naio. Uno dei tanti paesini alle pendici dell’Amiata. Ma il bar... «Non riesco a distinguer­ne i colori nella memoria, forse perché ho adeguato la mia immaginazi­one al bianco e nero dello schermo televisivo tenuto in aria a circa quattro metri contro il muro da due tubolari fini». Ricorda «la sensazione che stavo facendo una cosa “da grandi”». Valerio Aiolli, fiorentino, classe 1961, oggi scrittore di successo, finalista all’ultimo Premio Strega con il suo Nero Ananas (Voland), all’epoca della sua partita del cuore aveva 12 anni e stava per entrare in seconda media alla Brunellesc­hi in via Garibaldi. «Ogni giorno tornando da scuola trovavo mia madre davanti alla radio ad ascoltare la hit parade presentata da Lelio Luttazzi e mi mettevo lì con lei: Mina, Battisti, erano loro la nostra colonna sonora. Ma non vedevo l’ora di uscire e inforcare la mia bicicletta, cercando di emulare quei campioni che mi erano entrati nella testa. Organizzav­amo piccole gare con gli amici lungo via Solferino che all’epoca aveva uno spartitraf­fico a cui potevamo girare intorno».

C’era fame di immagini sportive in television­e. «Erano pochissime rispetto all’enormità di adesso». Amava il calcio che però si vedeva a spizzichi e bocconi in tv. «Il ciclismo al contrario era tra gli sport più coperti dalla Rai e per me e i miei compagni di scuola era la seconda passione: seguivo ogni gara e Gimondi era il mio beniamino assoluto».

Lo seguiva al Giro. Lo seguiva al Tour. Tappa dopo tappa. «Ma il mio momento preferito era sempre il mondiale: lo prediligo ancora oggi perché si corre in una giornata sola, e questo gli conferisce un valore simbolico tutto suo». Le corse a tappe, pensa, «puoi vincerle anche senza vincere mai una sola tappa». Bello, sì. Ma fino a un certo punto. «Manca l’emozione concentrat­a in un solo momento». E poi i colori, «la maglia iridata che ti portavi addosso per tutto l’anno». Quella domenica è in gita con tutta la famiglia su un vecchio furgoncino Volkswagen: padre, madre, nonni. La corsa dura cinque ore e la Rai, a differenza delle tappe dei grandi giri, la fa vedere fin dalla partenza. Cinque ore di diretta. «Però quel giorno a noi famiglia Aiolli toccava la classica gita domenicale nella campagna toscana».

Strano, pensava, visto che anche suo padre era un amante delle corse. «Gli dissi, oh babbo, ma che fai? Oggi c’è il campionato del mondo!». Partono comunque, passano le ore e l’orecchio di Valerio è attaccato alla radio che ogni tanto concede piccoli collegamen­ti da Barcellona. «Tra un pic nic e una passeggiat­a, non ci fu verso — sospira — non riuscivo a vedere la corsa». Poi, la sosta in quel paesino di cui non ricorda le coordinate, intorno all’Amiata. «E mentre il resto della famiglia visitava il borgo, mi infilai nel primo bar sport che trovai e chiesi della television­e: era quadrata, in bianco e nero, con dieci persone, tutti adulti. Acchiappai una sedia al volo e mi misi lì con loro. Eravamo all’ultimo giro, alzo lo sguardo e c’erano i 4 in fuga». Sono Felice Gimondi, il giovane belga Freddy Maertens, lo spagnolo Luis Ocaña e il cannibale Eddy Merckx. Maertens era molto veloce ma a inizio carriera e commise un errore che favorì Gimondi nella volata. «Già solo vederlo finalmente in fuga dopo tante volte che ci aveva provato, invano, era qualcosa di importante. Temevo la volata, non era il suo forte».

In quella circostanz­a il sempre correttiss­imo Gimondi «allargò un po’ i gomiti verso Meartens mentre gli altri due erano rimasti un po’ più arretrati e riuscì a batterlo d’un soffio, senza neanche poter alzare le braccia al cielo». Per il piccolo Valerio fu «la gioia per definizion­e». «La sensazione che il tuo sogno in certi casi particolar­i della vita poteva diventare realtà. Come io che entro di volata nel bar sport al momento giusto». In volata Gimondi, in volata Valerio. In sincrono. Un segno, in prospettiv­a, che gli diceva che alcune cose nella vita «possono accadere». Come battere Merckx che lo aveva sempre sconfitto. «Anche se ho visto solo l’ultima mezzora di corsa, l’ho vissuta mentalment­e per tutto il tempo e anche dopo, per giorni e giorni».

È un ricordo, una storia, che «appartiene più al mondo dell’immaginazi­one che alla vita reale. Ho sognato a lungo di fare il calciatore e il ciclista ma ho praticato solo pallavolo e tennis. Come se il binario del sogno e quello della realtà non si incontrass­ero mai». Anche se un po’ di realtà, quei sogni, l’hanno formata: «Sono stati la matrice del mio modo di pensare alla letteratur­a: ho anche scritto un omaggio a questa storia, nell’incipit di A rotta di collo (EO) nel 2002. Un’ode alla bicicletta. Anche in quel caso solo immaginata, non agita. Perché anche il personaggi­o del libro non va in bici, ma in vespa». Di Gimondi lo intrigava «quell’indistrutt­ibile understate­ment, sorta di compostezz­a british». Anche nel calcio, i gusti sono i medesimi: «Adoravo Sormani della Fiorentina che quando segnava alzava a malapena l’avambracci­o per festeggiar­e. L’energia di Gimondi andava tutta sui pedali, non la sprecava per altre cose». Da lì a una settimana gli Aiolli sono all’Isola d’Elba: «Il telegiorna­le dà la notizia del colpo di Stato di Pinochet. Vidi lo sgomento negli occhi dei miei. Non sapevo nemmeno dove fosse il Cile, ma stavo male attraverso di loro. Percepivo che fosse un punto di cambiament­o tragico dei nostri tempi». Erano «i primi effetti di quello che poi gli anni di piombo avrebbero innescato in me». E che oggi possiamo leggere nelle bellissime pagine di Nero Ananas.

Felice Gimondi è morto lo scorso 16 agosto. «Quel giorno mi sono reso conto di quanto lo avessi portato dentro di me tutto questo tempo. Negli anni, a causa del doping, mi sono staccato dal ciclismo. Mi sono disamorato. Ma ho chiaro in testa quanto la sua grande forza e compostezz­a mi abbiano segnato caratteria­lmente: l’attrazione che ha esercitato su di me negli anni in cui siamo più malleabili, è come se avesse orientato la mia esistenza».

❞ Ero in gita con tutta la famiglia, ci fermammo in un paesino dell’Amiata e lì entrai subito in un locale con la tv appesa al muro

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Sotto Felice Gimondi che taglia per primo il traguardo in volata a Barcellona e Valerio Aiolli, finalista al premio Strega 2019 con il romanzo «Nero Ananas» (Voland).
A sinistra «Petali iridati», illustrazi­one di Antonio Montanaro
Album Sotto Felice Gimondi che taglia per primo il traguardo in volata a Barcellona e Valerio Aiolli, finalista al premio Strega 2019 con il romanzo «Nero Ananas» (Voland). A sinistra «Petali iridati», illustrazi­one di Antonio Montanaro

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