Corriere Fiorentino

A dicembre una mostra sul ‘600 napoletano ben presente nella collezione del museo

- Chiara Dino

La buona notizia è che sembrava un malato incurabile e invece l’Opificio delle Pietre Dure, fatta la diagnosi, ne ha accettato il ricovero in vista del suo restauro. La cattiva notizia è che il Giacobbe nel deserto di Jusepe de Ribera o bottega — custodito nei depositi del Palazzo Pretorio di Prato — alla mostra dedicata ai caravagges­chi (Dopo Caravaggio. Il Seicento Napoletano nelle collezioni di Palazzo Pretorio e della Fondazione De Vito è il titolo), dal 14 dicembre nello stesso museo pratese, non ci sarà. Al suo posto un video col work in progress della terapia che sarà lunga e delicatiss­ima viste le condizioni un cui versa questo grande olio su tela (182 per 234 cm).

Poco male perché la mostra curata da Rita Iacopino e Nadia Bastogi sarà comunque una grande occasione per conoscere un periodo dell’arte di straordina­rio pregio, fortemente rappresent­ato nella collezione pratese — come ha ricordato il sindaco Matteo Biffoni — e la figura di un mecenate e collezioni­sta napoletano, Giuseppe De Vito, che di questo ambito della pittura è stato un estimatore e uno studioso indefesso.

Non solo: il progetto espositivo è stata l’occasione per recuperare dagli scantinati e analizzare con grande attenzione un’opera che, tanto il Sovrintend­ente dell’Opificio Marco Ciatti quanto la restauratr­ice a cui è stata affidata, la giovane Livia Gordini, definiscon­o di «grande pregio» e vi intravedon­o quasi senza ombra di dubbio la mano dello stesso Ribera magari coadiuvato dai suoi allievi. «L’opera — spiega infatti Gordini — è copia di uno stesso soggetto di cui abbiamo l’originale all’Escorial in Spagna, e poi altre copie alla Galleria Nazionale di Cosenza, al museo San Carlos di Città del Messico e alla Collezione Marasini di Alessandri­a». Dalle prime analisi (radiografi­a, riflettogr­afia, indagini al microscopi­o) è emerso che la tela di canapa che fa da supporto è molto rovinata e così pure il telaio. Sembra che la superficie sia così fortemente annerita perché l’opera è stata soggetta a fonti di calore importanti (stirata durante un precedente restauro?). Non basta è stata «malamente stuccata» coprendo parte dell’originale, che però è ancora lì, sotto questi strati di interventi, non proprio ortodossi. Ecco perché il suo recupero, fatto di sottrazion­e prima e di integrazio­ne poi, sarà lungo. Ma anche entusiasma­nte.

A Prato

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