Palazzo Blu viaggia a tutta velocità con i maestri del Futurismo
Da Balla a Boccioni: 100 opere raccontano quello che fu un vero sistema di pensiero
Il 20 febbraio del 1909 è una data capitale per la storia dell’arte del secolo scorso. E non solo. Perché veniva pubblicato su Le Figaro a Parigi il «Manifesto di fondazione del futurismo», a firma di Filippo Tommaso Marinetti. A Pisa, a Palazzo Blu, dall’11 ottobre fino al 9 febbraio 2020 sarà possibile visitare la mostra Futurismo. Un’esposizione di cento capolavori di un movimento che unì coerenza teorica e somma qualità artistica. Poeta, letterato, comunicatore, personaggio di profondissima cultura e di profetica visione degli epocali cambiamenti a cui erano soggetti quegli anni, Filippo Tommaso Marinetti capì subito che era indispensabile un’arte in grado di interpretare quella rivoluzione che dai ritmi lenti di una società fondamentalmente rurale approdava alla scansione di tempi completamente diversi nelle grandi città. «È cambiato il secolo — riflette la curatrice Ada Masoero — e cambia il mondo, c’è ansia di rinnovamento, l’arte deve poter esprimere tutto questo. Marinetti era uomo di grande cultura, che riuscì a costruire un sistema di pensiero molto forte. Il futurismo dura trenta anni, dal 1910 al 1940, un lasso di tempo impegnativo che coinvolge, oltre che le arti visive, la letteratura, la musica, la danza, il teatro e altro ancora. Ogni sezione della mostra è incentrato su un manifesto futurista relativo alle arti visive; le opere sono scelte per il loro valore artistico, ma anche per la fedeltà ideologica ai manifesti stessi. Ho messo solo artisti firmatari di quei manifesti. Su tutti loro vegliava Marinetti e, in un secondo tempo, Boccioni. Che era cattivissimo. Non avrebbe fatto entrare nel gruppo futurista nemmeno un grandissimo architetto come Antonio Sant’Elia». Solo due le eccezioni rispetto ai firmatari: all’inizio, con il dirompente ritratto di Marinetti, opera di Rougena Zatkovà («una vera bomba», lo definisce la
Masuero), e in chiusura, con Prima che si apra il paracadute, dipinto nel 1939 dal giovane Tullio Crali, (era nato nel 1910, praticamente coetaneo del Futurismo), che non firmò il manifesto del 1931 sull’aeropittura, ma la cui arte ebbe certificazione di autenticità da Marinetti stesso (Crali, se allora era il più giovane, è stato poi il più longevo, venendo a mancare nel 2000). La mostra è scandita quindi dai manifesti, il cui uso imperioso distingue il futurismo dalle altre avanguardie. Si scopre la comunicazione come la intendiamo noi e si arriva a una diffusione che trascende i limiti di un pubblico specialistico. Ai nastri di partenza cinque calibri da novanta che saranno futuri futuristi, ma allora accomunati dagli esordi nel segno del divisionismo: Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla, Gino Severini. Se esporre solo opere di firmatari di manifesti ha comportato dolorose esclusioni, la forza teorica e la coerenza ne ha certamente guadagnato. Ci sono inoltre testimonianze di come i modelli futuristi abbraccino ogni linguaggio. «Un vero sistema di pensiero», così lo definisce la curatrice. Con novità rivoluzionarie che arrivano fino a noi (vedi la pubblicità Campari, ideata da Depero con la sua celebre bottiglietta). Tutti i maggiori esponenti del futurismo sono rappresentati, esponendo spesso le loro opere più significative. Le splendide sculture di Boccioni (l’unico esponente del movimento che vi si dedicò), la ricostruzione futuristica dell’universo a firma Balla e Depero, gli esperimenti paroliberi, la grafica, esperienze importanti che testimoniano al più alto livello la complessità e completezza del movimento. Senza per questo tacere su criticità come il feroce interventismo, difficile da digerire per la nostra moderna sensibilità.
❞ La curatrice
C’è ansia di rinnovamento e l’arte lo deve esprimere
Le opere sono scelte anche per la fedeltà ideologica ai manifesti