«Le nostre ambulanze sotto attacco»
Il racconto di Michele, fiorentino, cooperante di una Ong in Kurdistan. Tra le bombe
Le bombe hanno smesso di cadere, lasciando l’aria alle urla dei feriti e al silenzio dei morti. Ma solo per poco tempo. La tregua è stata subito violata dai razzi su Ras al-Ayn, al confine tra Siria e Turchia: morte che arriva dal cielo su tanti civili inermi e su chi, laggiù, fra il Tigri e l’Eufrate, è andato a portare aiuto a quelle popolazioni. Michele Rezza Sanchez, fiorentino, cooperante della Ong «Un ponte per», quando le operazioni militari della Turchia nel Kurdistan siriano si sono intensificate è dovuto espatriare insieme al resto dello staff italiano e internazionale, ma da Dohuk, nel Kurdistan iracheno, continua a coordinare l’attività sul campo. Innanzitutto, come state? «Stiamo bene, impegnatissimi, un sacco di lavoro come si può immaginare. L’emergenza è pressante e noi ci stiamo organizzando nella maniera migliore per tornare all’operatività che avevamo prima. La situazione è molto più difficile, ci sono difficoltà logistiche e di comunicazione, tutto diventa più faticoso ma il nostro ufficio è operativo».
Com’è la situazione sul campo?
«L’attacco turco ha colpito tutto il confine nord della siria, da Ras al-Ayn fino al confine con l’Iraq, i bombardamenti si sono concentrati nell’area tra Ras al-Ayn e Tell Abiat con attacchi aerei e infiltrazione delle truppe di terra».
Dal punto di vista umanitario invece?
«La situazione è molto difficile, hanno bombardato centri abitati come Qamishlo, colpito bersagli civili, attaccato i convogli umanitari, provocando molte morti. Un attacco ha colpito il serbatoio dell’acqua di Hassake lasciandola a secco, è stato terribile, non aveva nessun senso soprattutto considerando che Hassake era una delle mete dei rifugiati che scappavano dai bombardamenti».
Anche voi siete stati colpiti. «Abbiamo subito un attacco a due ambulanze e ad un trauma stabilization point, una struttura per fornire il primo soccorso ai feriti che scappano dal bombardamento. Avevamo otto ambulanze che facevano la spola con la città e ci hanno attaccato ferendo diverse persone, un attacco inconcepibile che va contro la legge internazionale».
Voi, insieme al vostro partner della Krc (la Mezzaluna rossa curda, ndr) siete l’unica Ong che opera in zona.
«Siamo l’Ong che dal punto vista della sanità offre il supporto più corposo, servivamo cinque strutture, dall’ovest dell’Eufrate fino al confine con l’Iraq, fornivamo medicinali e supporto tecnico. Adesso
siamo ripiombati nella situazione di anni fa, all’emergenza totale. La cosa che mi fa stare male è che è una popolazione che ha vissuto nell’emergenza della guerra per anni e si stava riprendendo, ora per colpa di questa aggressione, sta rivivendo la guerra. Senza contare che sono stati i curdi a combattere l’Isis che adesso ha cominciato a riconquistare zone soprattutto a sud a Deir El Zor. A Qamishlo, vicinissimo al confine con l’Iraq del nord, c’è stato un attentato rivendicato da Daesh (Isis, ndr)».
Quanti sono i rifugiati? «Migliaia di morti e feriti, difficile fare una stima ma sono 150 mila i rifugiati interni soprattutto a Hassake e Raqqa».
Arrivano notizie di combattenti di Daesh liberati, è così?
«Sì, un campo è stato attaccato per cui le forze che lo controllavano sono dovute scappare, un certo numero di affiliati sono fuggiti, in più nelle zone al sud c’è ancora una parte di popolazione che sostiene Daesh e c’è una nuova insorgenza del fenomeno».
Come continuerete ad operare?
«Abbiamo ristabilito i punti più colpiti cioè la logistica del materiale medico, alcune parti del Paese sono difficilmente raggiungibili, la principale arteria di collegamento che è l’M4 è in mano alle truppe d’invasione, stiamo cercando strade alternative per portare medicinali nelle zone che potrebbero rimanere isolate».
Le scorte di medicinali reggeranno?
«Non ne abbiamo per molto tempo: in alcune zone forse dureranno tre mesi, in altre 15 giorni».
Come avete vissuto la mancanza di una risposta forte da parte dell’Europa?
«L’aggressione deve terminare con qualunque mezzo possibile, è un dato di fatto che è un’aggressione di un Paese nel territorio di un altro e sta portando enormi sofferenze ad una popolazione civile già stremata da un lunga guerra contro Daesh. Deve essere istituita una no flight zone, l’attacco indiscriminato procura sofferenze a chi non centra nulla, è inaccettabile».
❞ Nelle strutture sanitarie Dall’Eufrate al confine con l’Iraq fornivamo medici e supporto, ora è tutto più difficile