Erriquez e le lacrime per la volata di Bitossi
Erriquez, cantante della Bandabardò e la sconfitta di Bitossi ai mondiali di Gap: «Avevo 12 anni, piansi come un vitello davanti al televisore»
Gimondi marca a uomo Merckx. Il Cannibale lo guarda dritto in faccia. Spalla a spalla, ognuno preoccupato dell’imminente scatto dell’altro. Stallo. Ne approfitta Franco Bitossi: mancano due chilometri all’arrivo quando «Cuore matto» si lancia in solitaria sul rettilineo come un treno. Dietro parte una disorganizzata caccia, con i pesi massimi impegnati a bloccarsi a vicenda. Passano i minuti, i metri, Bitossi è sempre davanti, anche se un po’ alla volta perde terreno, il suo cuore traballa a causa dei continui problemi di salute. All’ultimo strappo ci arrivano in 4: Guimard, Zoetemelk e Merckx sono tutti in scia. Gimondi ha perso terreno. Ma al suo posto ecco Marino Basso...
È il 6 agosto 1972 e a Gap, in Provenza, si corre il Mondiale di ciclismo. È «La partita del cuore» di Enrico Greppi, scalmanato bambino fiorentino che quel giorno si trova a Torre Pellice, in Piemonte. Da adulto lo conosceremo col nome di Erriquez: è il frontman della Bandabardò.
«Aspettavo da tutta la vita una vittoria diversa, la vittoria dei poveri, del gregario che strappa la corona ai campioni». L’attesa di Enrico fino a quel momento era stata ben poca cosa: ha soltanto 12 anni anche se mastica ogni giorno pane e ciclismo, calcio, rugby, atletica. «Tutti gli sport, tranne i cavalli». Oggi segue anche lo snooker, biliardo in chiave britannica, «ipnotico, rilassante». Quel pomeriggio è da solo, sul divano della casa materna. Con la tv in bianco e nero. «Immaginate cosa voglia dire crescere in una famiglia in cui sono tutti interisti e ferraristi negli anni Sessanta — racconta — l’interista ferrarista è uno che si dispera quando arriva secondo, questi simboli di vittoria a tutti i costi mi sono sempre sfuggiti». Lui è diverso. «Sono un tifoso da “mai una gioia”, perché il tifo è così, a un certo punto ti arriva addosso quella strana empatia a cui non puoi dire di no...» A Enrico è sempre arrivata per i perdenti.
Siamo in piena epoca «del maledetto cannibale Merckx» e lui è cresciuto prima in Belgio, poi in Lussemburgo, in mezzo a bambini di tutte i paesi del Mercato comune, terre francofone. Nel 1972 la famiglia Greppi si trova in Lussemburgo perché il padre lavora alla Banca centrale. Lì i figli dei dipendenti delle agenzie comunitarie scrivono in tedesco sui documenti ufficiali, guardano la tv in francese, ma quando devono tifare i loro campioni, esultano in tutte le lingue del continente. Lui lo fa in fiorentino. In Lussumberugo «l’unico derby che contava era quello tra noi e i francesi. Non c’era cosa peggiore che perdere contro la Francia, in qualsiasi sport». A scuola ogni match era «una battaglia di tifoserie tra i banchi». Enrico studia violino al Conservatorio, ascolta Battisti, De André, Brassens, molta radio francese. «Da grande volevo fare il telecronista, abbassavo l’audio delle partite per imitare i miei maestri della tv francese. Era tutto epica e misticismo. Poi mi appassionai al rugby, che può sembrare brutale e stupido se pensi che c’è chi gioca con una costola rotta. Ma è una questione di mentalità: non lasci gli amici nella merda perché ti fa male una costola».
All’inizio degli anni Settanta assistere a un evento sportivo in diretta è «cosa rara e bellissima». Suo padre gli ha trasmesso nel Dna due amori: per lo sport e per la musica. «Ho iniziato a leggere Beppe Viola, Alfeo Biagi, Gianni Brera, quello narrato da loro era sport di grande teatralità e letterarietà, di battaglia. Di solito lo sport lo seguivi via radio. Ma con la tv sentivi le trombe del paradiso». Già all’epoca. «ero completamente privo di patriottismo sportivo» e automaticamente, «ahimé, attirato non dal campione ma dagli eroi da un sol giorno di gloria». Quel 6 agosto «la storia ha santificato due grandissimi: Franco Bitossi che ha fatto una carriera meravigliosa, anche se falcidiata da una tachicardia gravissima, ma era una meraviglia vederlo ripartire come un bufalo alla ricerca della vittoria, e Marino Basso, un lombardo più largo che alto, con delle cosce ipertrofiche». Lo aveva visto qualche mese prima vincere una volata al Giro: «Fu allora che lo scelsi come mio eroe del ciclismo». In quell’ultimo tratto di mondiale se la stanno giocando un italiano, un belga, un francese e un olandese. Lui pensa al primo giorno di scuola del nuovo anno che arriverà a breve, a quando ne discuterà coi compagni-avversari. «A cinque chilometri dall’arrivo il povero Bitossi non ne può più e rallenta vistosamente — racconta — i quattro alle sue spalle si avvicinano a mano a mano, lui entra nello stradone finale, mancano 300 metri, vede il traguardo e a quel punto commette un errore clamoroso: si gira. Ma vede solo macchine e non riesce a scorgere altri ciclisti, cambia traiettoria di colpo mettendosi in mezzo alla strada ed è allora che prende il colpo di vento fatale, una botta bestiale dritto in faccia che ti rallenta all’istante». Siamo a dieci metri dal traguardo, Bitossi è sempre in testa. «Poi otto, sette, sei metri... A trenta centimetri piomba su di lui come un falco Marino Basso, lo passa. È campione del mondo».
Il vento in faccia Erriquez lo ha sempre cercato. Lo ha cantato anche, quasi trent’anni dopo: «Vento in faccia, alzo le braccia, pronto a ricevere il sole, anima in pace quando tutto tace, è la libertà che mi vuole». Ma quel giorno è tutta un’altra cosa, è un maledetto vento in faccia traditore. «Un secondo dopo aver tagliato il traguardo al secondo posto, Bitossi schianta in lacrime: per un bambino come me, vedere uno capace di stare in bici per 9 ore, sputare sangue, coraggio e fatica, vederlo piangere ti fa effetto. Gli arrivano attorno tutti, l’intera squadra, e tutti scoppiano in lacrime con lui. Piange anche Basso, invece di esultare per la vittoria, vedendo la situazione. Come se volesse chiedergli scusa per averlo superato. Anch’io piangevo come un vitello, sul divano. Ancora oggi mi si rompe la voce se ci penso». Enrico ricorda il titolo de La Stampa del giorno dopo: «Un crescendo di caratteri dal più piccolo al più grande Bitossi, Bitossi, Bitossi, Basso come a ricalcare l’urlo del telecronista».
L’anno dopo il Giro d’Italia inizia in Lussemburgo e il tredicenne Enrico Greppi non se lo vuole perdere. Dalla finestra della sua scuola vede passare la carovana rosa: «Ho visto Merckx in fuga su una salita verticale che andava a trionfare da solo. Ho visto Basso, il giorno dopo, con la maglia da campione del mondo indosso e le gambe piene di mercurio cromo, tutte rosse, perché nella tappa del giorno prima era cascato e lo avevano come dipinto col pennello, dato che era completamente abraso».
❞ Aspettavo una vittoria diversa, la vittoria dei poveri, del gregario che strappa la corona ai campioni: ancora oggi se ci penso mi si rompe la voce