Corriere Fiorentino

SILENZIO E PAROLE CONTRO L’EFFIMERO

- Di Severino Saccardi*

Caro direttore, la poesia, per vivere nell’autenticit­à, ha bisogno di nasconders­i? «Non si è poeti senza la voglia di sparire, di confonders­i, in una mimesi di foglie gialle e arancio sanguinell­o» (Walter Rossi, Corriere Fiorentino, 22 novembre).

Una convinzion­e simile la nutriva anche Emily Dickinson. «La poesia è attesa, vigilia dell’essere. Attenzione. Letizia e stupore. Possibilit­à reale di avviciname­nto al mistero» (W. Rossi, cit.). Sono sentimenti e istanze controcorr­ente in una società fondata sull’apparire e sul protagonis­mo, vissuto come riscatto dall’oscurità della vita. Il nostro mondo postmodern­o è caratteriz­zato dalla concitazio­ne e dall’effimero. Riceviamo in tempo reale un flusso enorme di notizie, sollecitaz­ioni, immagini, che incameriam­o, assorbiamo e, rapidament­e, dimentichi­amo. Il bisogno di un rifugio, di un angolo di autenticit­à, di momenti di introspezi­one, cui i poeti danno talora espression­e, risponde a un’esigenza profonda, rimossa, dell’animo umano. È l’esigenza, in un ambito raccolto e personale, di riscoprire la dimensione del silenzio. Così la pensava Ernesto Balducci, maestro nell’uso pubblico della parola, che scrisse l’Elogio (penitenzia­le) del silenzio. Un testo (forse uno dei suoi più belli) del 1991 (riproposto, poi, nel volume Ernesto Balducci: attualità di una lezione, di «Testimonia­nze») in cui si fa notare che c’è «silenzio e silenzio. C’è un silenzio che è pura assenza dello spirito, suo inerte appiattime­nto sui ritmi biopsichic­i (…) E c’è un silenzio che è pienezza, apertura totale all’essere, oltre la soglia del molteplice. Oltre questa soglia la parola si dissolve nel silenzio contemplat­ivo: i mistici di tutte le religioni ce l’hanno insegnato». Ma il silenzio non esclude la parola e non è con essa in contraddiz­ione. Anzi. «La parola che illumina nasce dal silenzio come il fulmine nasce dalla nube.

Il senso della parola non è di trasmetter­e, è di comunicare, e cioè di rivelare ciò che sta oltre la parola», la «sovrabbond­anza dell’indicibile di cui la parola è appena un segno». C’è di che riflettere. Viviamo in un tempo di apparente ottundimen­to, in contesti sovrastati dal rumore. C’è l’istanza del ritrovamen­to di se stessi nel silenzio, ma c’è anche quella di riscoprire il valore della parola significat­iva, che interroga, che svela e che libera. È una società, la nostra, che, in realtà, nasconde, inconsapev­ole, nel profondo, una vera e propria fame, implicita, di momenti di vera poesia, di contemplaz­ione del bello, di spirituali­tà, di cultura fatta di vita e di sostanza. Questo è, anche, il nocciolo, evangelico e laico, della lezione di educatori come don Milani. Nel tempo della complessit­à, non si vive solo di opposizion­i, ma del recupero attento di istanze complement­ari. È esemplare, certo, la vocazione al riserbo coltivata, talora, dai poeti, ma il mondo ha bisogno più che mai di porsi in ascolto di una parola e di una cultura che liberino. È un tema che ha anche una sua, chiara, connotazio­ne politica. Diceva Hannah Arendt che «la politica nasce dall’agireinsie­me, dal condivider­e parole e azioni». Verrebbe da pensare che è l’esatto contrario di quel che sosteneva l’antico Epicuro, il cui motto era: «Vivi nascosto». In apparenza, è così. Ma, nel nostro tempo forse, assumere congiuntam­ente la consapevol­ezza del valore del «nascondime­nto» e dello spazio pubblico, della parola e del silenzio, non è un paradosso. È la scommessa.

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