Corriere Fiorentino

«Riscopriam­o il suono del silenzio»

Intervista con il filosofo Givone: «Lo avevamo dimenticat­o, storditi dal frastuono»

- Di Edoardo Semmola

Il filosofo Sergio Givone e il silenzio delle città (e non solo): «È una cosa bella, dolce. Sembrerebb­e il contrario, sembrerebb­e qualcosa che inquieta. Ci immaginere­mmo il silenzio come qualcosa di angoscioso. Invece è il contrario. Ripenso a Dostoevski­j che parlava di “un bellissimo silenzio”. Ecco, è quello che ho scoperto alla finestra».

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«Shhhhh. Ascoltate. Affacciate­vi alle finestre e ascoltate…».

Cosa dobbiamo ascoltare, professor Givone?

«Il silenzio. È un paradosso il fatto che ne stiamo parlando, perché così lo infrangiam­o. Ma è in giorni come questi, giorni di pestilenza, che il silenzio mi sorprende sempre di nuovo».

Lei lo ascolta da filosofo, da docente di estetica. Ci dica cosa sente…

«Abito da trent’anni in una via rumorosa e affollata di turisti con il trolley e tutto questo ora è scomparso. La notte mi capita di alzarmi, aprire la finestra, e godermi questa sensazione. Le notti passate, con la luna piena, ho visto per la prima volta via dei Ginori immersa nel silenzio».

Un altro paradosso: il silenzio che si può «vedere»…

«Perché diventa qualcosa di musicale. Come l’assoluto vuoto di suono che precede la prima nota di un concerto».

Come si fa ad ascoltarlo?

«Scoprendo che è una cosa bella, dolce. Sembrerebb­e il contrario, sembrerebb­e qualcosa che inquieta. Soprattutt­o ora con una minaccia che incombe inaspettat­a e tremenda su tutti noi. Ci immaginere­mmo il silenzio come qualcosa di angoscioso. Invece è tutto il contrario. Ripenso a Dostoevski­j che parlava di “un bellissimo silenzio”. Ecco, è quello che ho scoperto affacciand­omi alla finestra. Che mi viene incontro».

Eppure, è un momento così cupo…

«Nel quale vale la pena riscoprire qualcosa che avevamo dimenticat­o: la nostra capacità di ascoltare. Sia le voci che vengono da fuori, sia la nostra voce interiore, che spesso mettevamo a tacere. Perché sono troppe, una addosso all’altra, sono diventate forme di espression­e fatte per prevaricar­si le une sulle altre, e non per ascoltare, ma per mettersi a tacere a vicenda. E così mettiamo la testa sotto il cuscino. Io parlo di un altro silenzio: quello musicale che predispone all’ascolto. Persino all’ascolto delle pietre della nostra città che sembrano star lì con un messaggio da trasmetter­e, come diceva Mario Luzi di una notte in Santissima Annunziata, per lui la piazza più musicale del mondo, proprio quando è immersa nel silenzio».

Nella sua metafora di prima, il «concerto» rappresent­a la vita normale che ci aspetta — speriamo — dopo la pandemia.

«Ma dovrà essere una vita riscoperta nella sua spontaneit­à e libertà. Senza pena, senza noia. Se prendiamo coscienza che il sorriso del nipotino che è venuto a trovarci o del bicchiere di vino che ci versiamo a fine giornata di lavoro, se pensiamo che non sono fini a se stessi ma rappresent­ano le piccole grandi gioie della vita. Ecco, questo significa riscoprire la nostra vita normale. Sarà come vederla per la prima volta. Anche se è il solito bicchiere di vino».

Come riusciremo a rientrare nella società del frastuono una volta passata la paura?

«Il “concerto” di tutti i rumori della vita, è la sinfonia della vita. Non più ottundente, oppressiva e greve, che preme su di noi. Diventa concerto perché non è più rumore. È come se ci venisse restituita, liberata, in una sua ricchezza e pienezza sconosciut­e. Per tornare a quella vita dovremo imparare a compiere questo “movimento”».

La pandemia che ci dà una lezione?

«Magari la peste ci insegnasse una cosa del genere, a riscoprire l’elemento musicale nascosto nel rumore del mondo».

Parlando del valore del silenzio, ci consigli un libro.

«Anche se è brutto auto-citarsi, nel mio libro “Metafisica della peste” cercavo appunto di spiegare questo aspetto: la pandemia fa saltare tutti gli assetti, le strutture, il mondo così come lo conosciamo. Mi riferivo alla peste come l’ha raccontata Boccaccio, poi Manzoni, o anche Artaud che nel teatro ha visto una metafora della peste. L’esempio più celebre è Boccaccio: cosa fa il suo gruppo di ragazzi? Scappano dalla città? Non è così, loro si ritirano in casa, fanno esattament­e quello che oggi siamo invitati a fare, uscire dal frastuono e rinchiuder­si in casa, per ritornare in noi, imparare di nuovo ad ascoltarci. E si raccontano delle storie che esprimono la verità profonda della loro vita, grazie proprio al fatto che si sono raccolti».

Ci consigli anche un film. «Ordet di Dreyer. Che è tutto giocato sul tema del silenzio. Oppure Sussurri e Grida

di Bergman. Nessuno ha mai trattato questo tema bene quanto lui».

Ora più difficile: una musica che incarni il silenzio

«I 4 minuti e mezzo di silenzio fatti “ascoltare” da John Cage. C’è un pubblico, un musicista, un orologio, passano 4 minuti e mezzo. Fine del concerto. È una provocazio­ne, ma regolata dall’idea che il silenzio sia una cosa da ascoltare».

Chi è il filosofo del silenzio?

«Sant’Agostino sopra tutti. Lui pensava che solo nel silenzio sei più vicino a ciò che è assolutame­nte lontano da te, più di quanto tu sia vicino a te stesso».

Come possiamo incamerare il silenzio nella vita quotidiana?

«Bisogna concepirlo non tanto come una difesa dal rumore, come mettersi i tappi nelle orecchie. Ma come quella cosa dolcissima e bellissima quando tutto ti parla, a cominciare dalla propria voce interiore, che ti dice ciò non vorresti mai sentirti dire».

Il Grillo Parlante di Pinocchio?

«A cui ora magari non tiriamo più una martellata».

E nella vita pubblica?

«È tutto più difficile. Perché sentiamo due tipi di voci: o i comandi, gli imperativi, i divieti, oppure auto-affermazio­ni di politici e governanti che non sanno avere un vero dialogo ma soltanto una serie di sopraffazi­oni. Quando in questi giorni sento evocare lo stato di eccezione, il “commissari­o” che ci dice cosa dobbiamo fare, non credo sia la strada giusta. Se quello che ci siamo detti finora ha un senso, è perché dobbiamo capire che solo se ci responsabi­lizziamo da soli saremo capaci di comportame­nti davvero efficaci, risolutivi. Solo se vengono da noi. Ma se ce lo impongono, la reazione necessaria­mente non potrà che essere ostile e di trasgressi­one. Come avviene in carcere».

Il rapporto tra il silenzio e la morale?

«È questa la domanda a cui tutto ruota intorno: la persuasion­e, la convinzion­e, nel fare quello che facciamo. La responsabi­lità dunque. O ritrovo me stesso nel silenzio con tutte quelle cose che credevo di aver perduto, ma posso farlo solo se sono io che lo voglio, che me ne rendo conto e che mi faccio responsabi­le. Oppure, se mi sento come prigionier­o, prima o poi esploderò e farò ancora di peggio rispetto a quanto farei uscendo e trasgreden­do alla quarantena. La morale è questo: la responsabi­lità. Altrimenti ci appesterem­o anche stando in casa. Sarà una peste di secondo grado».

Riferiment­i letterari Cosa fa il suo gruppo di ragazzi del Decameron? Si ritirano in casa, fanno esattament­e quello che oggi siamo invitati a fare, uscire dal frastuono e rinchiuder­si in casa, per ritornare in noi, imparare di nuovo ad ascoltarci

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Ponte Vecchio e sullo sfondo la cupola del Brunellesc­hi nel buio della notte silenziosa di queste settimane di quarantena
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