DEDICATO AI QUAQUARAQUÀ
Scriviamo pensando agli scettici del Covid19, ai minimalisti, ai negazionisti. Scriviamo pensando a quei presunti esperti e intellettuali che solo pochi giorni fa parlavano di una forma appena più accentuata di una normale influenza, o che si scagliavano contro chi parlava di epidemia, e che continuano bellamente a essere invitati nell’uno o nell’altro salottino tv senza neppure un cenno di scuse. A tutti loro, e ai loro compiaciuti ospiti, facciamo una domanda: avete mai letto uno dei racconti che escono dagli ospedali in questi giorni? Vi siete mai sforzati di ascoltare le parole pronunciate dai parenti degli ammalati, o da chi è sopravvissuto alla malattia? Non c’è da spaventare nessuno, ma bisogna raccontare la verità.
E la verità ci dice che il coronavirus sta segnando la nostra epoca, ci sta squassando l’anima. Dei suoi effetti si parlerà a lungo, fino a farne racconti di storia. Come per la Spagnola. Anzi di più, per la potenza acquisita in un secolo dalla comunicazione planetaria. Oggi a pagina 5 pubblichiamo due cronache, di segno diverso, ma di una stessa drammaticità. I familiari di una donna ricoverata descrivono l’ultima telefonata prima che lei venisse intubata. Non l’hanno più vista. L’unico filo rimasto fra loro era la voce dei medici che ogni giorno davano loro notizie. Dopo quindici giorni la donna è morta. Sola. L’altro racconto tiene al centro una letterina indirizzata da una bambina ai due nonni, entrambi ricoverati, trovata nel pacco sigillato fatto recapitare in corsia.
Si fa fatica a leggere e restare a ciglio asciutto, come amava dire Indro Montanelli. Ma non c’è solo la pietas per chi se ne va e per chi resta nel dolore. Quello che sta succedendo merita almeno un paio di riflessioni. La prima: la pandemia cambierà la nostra cultura, anche e soprattutto nei rapporti fra le generazioni; ci stavamo dimenticando che tutti noi invecchiamo e che nessuno vorrebbe finire i suoi giorni in solitudine; forse abbiamo trovato un vaccino efficace contro la cronicizzazione degli egoismi.
La seconda riflessione: siamo tutti preoccupati del crollo dell’economia, per i mancati guadagni, per la difficoltà di quella che sarà, prima o poi, la ripartenza.
Parliamo pure anche del dopo, di quello che si dovrà fare a incubo finito, ma senza dimenticarci mai che adesso ogni sforzo, singolo e collettivo, va fatto prima di tutto per salvare chi rischia la vita e per preservare chi, in salute, domani avrà più energia per rimboccarsi le maniche e fare da traino. C’è anche una terza riflessione da fare, però. Anzi, una richiesta: i quaquaraquà si mettano in quarantena. Ma non solo per quaranta giorni.