Corriere Fiorentino

«Nella mia testa zero spazio al calcio»

Prandelli e il Covid: faccio il contadino, tra gli ulivi. Tornare in campo? Ma come si fa...

- Semmola

Cesare Prandelli, ex allenatore della Fiorentina (l’ultimo a portarla in Champions) e della Nazionale, parla della sua quarantena a Firenze e del calcio: «Mai come in questo momento — dice — mi sento lontano dal mio lavoro di allenatore e dal mondo del calcio». Lui vive a Firenze, in piazza del Carmine, ma ogni tanto esce nella sua azienda sulle colline: «Sto facendo il contadino, curo i miei ulivi. Come usciremo dall’emergenza? «Sono ottimista».

«Se vedo un mio giocatore festeggiar­e la vittoria girando per il campo perché stiamo vincendo 1-0 al 60’ minuto, secondo lei cosa faccio?».

Mister Cesare Prandelli, probabilme­nte lo prende per un incoscient­e...

«Ecco, a volte mi sembra di vivere questa identica situazione: gente in strada che pensa di aver sconfitto il coronaviru­s perché alla tv dicono che i numeri sono confortant­i, che pensa che il peggio sia passato. Siamo solo a metà della ripresa, bisogna rimanere concentrat­i. E l’1-0 non basta. Altrimenti la partita la perdi proprio quando pensavi di averla in tasca».

Lei è concentrat­o? Sta seguendo gli schemi di gioco?

«Io, Novella, Bonaccorso e Nero stiamo in casa. La nostra quarantena si chiama Piazza del Carmine. Mi sposto soltanto per isolarmi nella mia azienda agricola biologica in collina poco fuori Firenze, perché devo badare agli ulivi, abbiamo anche degli alberelli nuovi. Vado a fare il contadino, ma da solo».

Novella è la sua compagna. Bonaccorso il figlio. Ma Nero…? «È un Jack Russell, bellissimo».

Quando porta fuori Nero, che impression­e ha di Firenze?

«Generalmen­te se ne occupa Bonaccorso. Ma la sensazione è comunque terribile. I primi giorni provavo dei sentimenti strani, da situazione irreale. Poi mi ci sono abituato. Ci siamo resi conto rapidament­e che la situazione era molto seria. E vedere la gente così, con la mascherina, la testa bassa, l’aria abbacchiat­a. Si percepisce una preoccupaz­ione densa».

Simbolicam­ente la mascherina ha un impatto psicologic­o potente…

«Indossarla ti porta quasi istintivam­ente a camminare a testa bassa, è come un oggetto sconosciut­o, qualcosa che non ci appartiene. Ti schiaccia».

La sua è stata l’ultima Fiorentina in Champions. E come ct è stato l’ultimo a portare la Nazionale a una finale (Europei 2012). Da allenatore di calcio è abituato a entrare nella testa delle persone con lo sguardo...

«Allenatore? Non ho mai vissuto una fase della vita in cui mi sia sentito così tanto lontano dal mio lavoro. Quest’ultimo mese ha quasi cancellato tutto quello che c’era prima».

Adesso a cosa pensa?

«A tante cose. In questa situazione, con la distanza tra le persone, con i contatti più difficili, io non sono il responsabi­le di un gruppo, faccio parte di quella massa indistinta di mascherine che camminano. Cosa vuol dire essere allenatore oggi? Forse mi sento realmente solo per la prima volta nella vita, senza il gruppo».

Cosa la spaventa?

«La paura è sana: ti aiuta a stare vivo, sveglio, a pensare, a prevenire, a guardare al futuro. Sto vivendo un momento di dolore e preoccupaz­ione enorme perché la mia città, Orzinuovi, nel bresciano, è stata colpita in maniera molto dura: ho perso degli amici, ho parenti in ospedale. In questi momenti cambia profondame­nte anche il senso di frasi e domande semplici a cui prima non facevi caso».

Per esempio?

«Dire “come stai?” non ha più lo stesso valore. Si dice in maniera diversa. Prima non aspettavi nemmeno la risposta. Ora la aspetti eccome. È diventata una domanda grossa».

E riguardo al futuro, ha paura?

«Molta, pensando a come sarà, questo futuro. Mi auguro che da questa terribile esperienza si cominci a pensare che non siamo soli sulla terra, siamo di passaggio e dobbiamo rispettare di più quella natura che ora con il virus ci sta dando un grande segnale. Non c’è più smog nell’aria, i mari sono puliti: la natura fa presto a riappropri­arsi di ciò che gli appartiene. Pensavamo di essere invincibil­i, di avere macchine perfette, tecnologie eccezional­i, pensavamo a rincorrere sempre di più per avere sempre di più. Invece di curarci di ciò che abbiamo già».

In tutto questo c’è spazio per il pallone nella sua testa?

«Zero. Non solo per quanto riguarda il campo, ma anche tutto il discorso e le polemiche sui tagli degli stipendi, li trovo fuori luogo. Magari per chi gioca in Serie C è un discorso che ha senso. Ma non mi pare che stiano pensando e lavorando al futuro del calcio nella sua globalità, parlano solo dei problemi della Serie A».

Lei come si schiera nel dibattito tra chi vuole concludere la stagione a tutti i costi e chi vuole chiuderla qui?

«Mi chiedo come si possa solo immaginare di portare le famiglie allo stadio quando solo pochi giorni fa contavamo i morti e guardavamo passare la bare sui camion dei militari. Come si fa a portare la gente dall’ospedale allo stadio?»

Voi uomini di sport spesso avete la mentalità che serve a prendere il toro per le corna e a trasformar­e una situazione critica in un punto di forza…

«Gli sportivi per natura sono portati alla sfida: trovano nella grinta e nella voglia la capacità di ricomincia­re aggredendo la difficoltà. Lo sportivo non può essere passivo. Ma quello che ci aspetta ora è uno sport completame­nte diverso. Immagino che nessun giocatore si lamenterà mai più perché gli allenament­i sono troppo duri. Ora probabilme­nte firmerebbe­ro tutti per correre un’ora in più. Hanno capito l’importanza della salute: se corri e giochi vuol dire che stai bene».

Pensa che il calcio e il Paese vivranno una sorta di rivoluzion­e sociale?

«Una rivoluzion­e no, ma un cambiament­o sì. Nel calcio come nella società. Dallo Stato mi aspetto che almeno capisca che non esiste niente di più importante della salute. E che la ricerca va finanziata veramente. Ripartendo dal sostegno al lavoro e ai lavoratori, sì, anche quelli in nero. Perché se uno è ricco ma vive circondato da gente povera, non sta bene. Il cambiament­o inizia credendo di poter cambiare».

Sembra ottimista...

«Lo sono sempre stato. Ma in questa situazione non puoi pensare di risolvere tutto velocement­e. Ci vuole molta pazienza. E occorrerà sviluppare un’attitudine diversa alla vita. Sono momenti di riflession­e, bisogna saper gestire, non puoi perdere la testa adesso. Ecco, ora torno — ma solo per cinque secondi — a ragionare da allenatore: per vincere questa partita contro il virus devi trasmetter­e concetti chiari, semplici, ben definiti. Non dare l’illusione che sia tutto risolto prima del tempo e che le persone possano uscire serenament­e in strada. Altrimenti torniamo a quel sessantesi­mo della partita di cui parlavamo prima».

Cambiament­i Ho perso alcuni amici nella mia Orzinuovi, dire “come stai?” non ha più lo stesso valore. Si dice in maniera diversa. Prima non aspettavi nemmeno la risposta. Ora la aspetti eccome: è diventata una domanda grossa

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Cesare Prandelli, ex allenatore della Fiorentina e della Nazionale, vive a Firenze in Oltrarno
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